Nonostante la Giurisprudenza affermi la necessità della personalizzazione in ogni atto di risarcimento (al fine di rispettare la dimensione irriducibile ed unica di ogni persona), la stessa poi si sta contraddistinguendo sempre più, nel nome di una pur giusta esigenza di uniformità, nel trattare in maniera stereotipata gli strumenti liquidativi.
Si formano tabellazioni per quantificare il danno, la sofferenza, la morte. Inevitabilmente ci si allontana così da quel nucleo di irripetibile unicità che invece in ogni vicenda risarcitoria si dovrebbe comunque imprescindibilmente affermare.
Alle procedure per incasellare, misurare, distinguere, classificare – come direbbe Foucault- o, per dirla in altro modo, al triste contabile che dovrebbe alla fine sovraintendere l’esercizio della giustizia vogliamo invece contrapporre la vita concreta, tratta da ogni espressione dell’arte, nella quale costantemente fanno capolinea i concetti della dignità, della perdita, del dolore, della vita stessa, principi che dovrebbero innervare ogni seria discussione giuridica.
Individuazione della norma applicabile e non qualificazione giuridica della fattispecie
La questione, affrontata organicamente nella sentenza del 12 novembre 2024 n. 29232, è la seguente: