Nell’ultimo libro di Emmanuel Carrère (V13), relativo al resoconto del processo svoltosi contro i responsabili della strage del Bataclan a Parigi, lo scrittore annota, parlando delle parte civili, che “il danno da loro subito è evidente. E’ possibile calcolarlo, secondo una tabella all’apparenza mostruosa, ma che esiste, alla quale si può fare riferimento: il lutto di una sorella vale più di quello di una cugina, la perdita di una gamba più di quella di un piede“.
Risulta quindi evidente allo scrittore il possibile carattere assurdo di una tabella che contabilizza i danni e i dolori. Ma solo apparentemente. Tale strumento permette di evitare l’arbitraria anarchia del risarcimento (preservando il carattere uniforme e quindi democratico del ristoro). Ma altrettanto chiaro deve apparire che tale carattere mostruoso è sempre in agguato e riemerge ogni qualvolta si tenta di far tacere l’equità. Il più corretto approccio ermeneutico, nell’attività riparativa, è infatti quello descrittivo ed analitico, soppiantando un processare generico e superficiale dei fenomeni. Solo incarnando concretamente l’imperativo della personalizzazione lo si fa veramente fruttare, esplicando fino in fondo il principio di equità. Danno e persona sono sempre indissolubilmente legati, se scompare la persona, nel discorso risarcitorio, scompare inevitabilmente il danno, mentre l’accertamento del danno è esclusiva conseguenza del riconoscimento della persona. Il fulcro della decisione giudiziale non può quindi esaurirsi in una sbrigativa ed asettica attività di contabilità, che sarebbe appunto mostruosa, ma deve costituire il momento più alto di sintesi tra l’apparato dottrinale e giurisprudenziale (in tema di tutela della persona) e l’equo e rigoroso risarcimento concreto dei singoli aspetti di danno subito dalla persona