Quando veniva in studio, con il Marito e la Figlia, stava sempre seduta, un po’ in disparte. Vestita sempre di nero. In lutto. E non parlava mai. Le sue labbra erano serrate come la pietra di un sepolcro. Era attenta però alle mie parole, quando parlavo dell’incidente del Figlio. Una sera lo aveva salutato: andava con gli amici al bar a giocare a freccette. Non era più tornato. L’auto sul quale viaggiava come trasportato, aveva perso il controllo ed era uscita fuori strada. Ogni tanto piangeva. Ma in modo strano. Restava immobile, non un singulto, non un rumore, ma un canale di lacrime copiose sorgeva da un angolo dei suoi occhi. Più che un pianto pareva uno spurgo, un’impercettibile inesauribile fonte. Quando finiva l’incontro, si alzava, mi stringeva la mano. Io avvolgevo la sua con entrambe le mie. Il massimo del coinvolgimento che mi permetteva.
L’assicurazione non liquidò il danno e fu il momento di proporre la causa. Erano tutti d’accordo. Quando vennero in studio, il Marito e la Figlia firmarono la procura alle liti. La Madre rimase immobile. Pur invitata a sottoscriverla, non riusciva a prendere la penna, quasi pietrificata. Muta guardava la penna, abbandonata sul tavolo. Poi volgeva il suo sguardo su di me. Poi di nuovo sulla penna. Il Marito mi assicurò che a casa era d’accordo ad andare avanti, formulando l’azione, ma lì evidentemente non riusciva a firmare. Non riusciva a dare corpo a quel pensiero. Il Marito mi disse che temeva di firmare perché ciò avrebbe significato guadagnare dalla morte del Figlio. Dissi che era inutile insistere. Andarono via. Si prese tutto il tempo che volle. Passarono alcuni mesi. Poi mi telefonò, si militò a dire: “Ora sono pronta”. Successivamente mi confidò che non poteva sopportare che fosse l’assicurazione a guadagnare per la morte del Figlio. Doveva , anche con immenso dolore, combattere l’ultima volta per Lui.
Durante il processo venne in studio (sempre con il Marito e la Figlia), parlò sempre poco. Ma iniziò a parlare. Continuava a piangere, sempre in quel modo particolare.
Il Tribunale di Treviso condannò alla fine l’assicurazione (la Zurich). Quando lo comunicai non vi era gioia (a dire la verità neanche in me). Confesso che ogni volta che comunico una vittoria del genere non c’è mai gioia, perché si pensa sempre ad una morte, ad una perdita, ad una ferita irreparabile. L’ultima volta che ci vedemmo mi prese da parte e con un filo di voce, quasi per scusarsi (ma non c’era nulla di cui scusarsi) mi disse: “Sa Avvocato, manderò questi soldi ad una missione in Africa”
Dopo qualche tempo, rileggendo le Metamorfosi di Ovidio, mi sono imbattuto nella trasformazione di Niobe (punita con la morte dei suoi figli dalla rabbia di Latona, madre di Apollo e di Diana). E’ stata per me come una rivelazione.
“Priva di tutti,
si siede tra i cadaveri dei figli, delle figlie, del marito
s’irrigidisce dal dolore: non un capello si muove
al vento, il volto è di un pallore esangue, gli occhi fissi
sulle guance meste; nulla di vivo in quell’immagine.
Persino la lingua le si congela dentro al palato
indurito, e le vene cessano di pulsare;
il collo non si piega, le braccia non si muovono,
il piede non va; e le viscere sono fatte di sasso.
Piange, tuttavia, e avvolta da un turbine di forte vento
è trasportata nella terra natia. Lì è lasciata infissa sulla
cima d’un monte: ancora dal marmo sgorga del pianto”
(Ovidio, Metamorfosi, trad. di Gioachino Chiarini)
Quanto simile a Lei il pianto di quella Madre che ho conosciuto.