All’ultima Biennale del Cinema di Venezia è stato premiato il film di Matteo Garrone “Io capitano“. Qualche anno fa lo scrittore Giorgio Fontana, in un testo teatrale (La macchina del dolore), dedicato proprio al fenomeno dell’immigrazione, precisava il senso del suo scrivere:
“Le storie sono ciò che ci impedisce di ridurre questa immensa tragedia a un mucchio di concetti e numeri: le storie liberano le parole dalla loro banalità e dalla loro imprecisione. In un passo di Minima moralia, Adorno scriveva che “la vita passata dell’emigrante è, come è noto, annullata. Una volta era il mandato di cattura, oggi, invece, è l’esperienza intellettuale che viene dichiarata non trasferibile e totalmente estranea al carattere nazionale. Ciò che non è reificato, che non si presta ad essere contato e misurato, viene lasciato cadere.” Tutto ciò che all’Europa interessa è appunto il misurabile: un’impronta digitale, un nome, un foglio di carta. Quello che c’è dietro — la singolarità ineludibile di ogni persona, l’unicità di ogni esperienza — perde di significato. Ecco, le storie si ribellano a questo pensiero. Le storie rivendicano l’eccezione e l’individualità contro la regola uniformante: narrarle, e ascoltarle, fa parte della nostra possibilità di riscatto morale. Perché non ci parlano di una massa confusa, ma di persone. Non dicono di clandestini, ma di esseri umani: liberi, affamati di felicità, terrorizzati dal destino dei propri cari. Esattamente come noi“.
Avverto del tutto simile, nell’ambito del diritto, l’insopprimibile esigenza di raccontare la storia di ogni vittima, tentando di dare la parola ad ogni singola sofferenza, trarre dall’anonimato la persona colpita e darne un nome, un volto, una vita. Perché l’azione della giustizia risarcitoria non può certo limitarsi alla banale applicazione di una tabella.