Nessuno dubita oramai che la morte di un congiunto non determini un danno in re ipsa, cioè di un danno consistente nella mera lesione dell’interesse protetto, come nessuno dubita che la perdita del congiunto debba essere risarcita nella misura in cui abbia prodotto delle conseguenze pregiudizievoli tra i parenti.
La prova di tali conseguenze è ricavabile per presunzioni dallo stesso rapporto di parentela secondo un principio di diritto, già più volte affermato dalla Corte di Cassazione, e ribadito da ultimo con la sentenza n. 2776 del 30 gennaio 2024, per il quale ” (ud. 11/09/2023, dep. 30/01/2024), n.2776 questa Corte nei seguenti termini: “L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del “quantum debeatur”); in tal caso, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo”
Ne discende che correttamente i giudici di merito deve presumere l’esistenza di pregiudizi rilevanti, ricavabili dal rapporto di parentela. Nella citata sentenza si afferma inoltre che “si trattava per l’appunto di coniuge, figli e fratelli e dunque di quella categoria di parenti assistiti dalla presunzione iuris tantum di aver patito una conseguenza pregiudizievole a causa del decesso del congiunto, e che competeva dunque alla azienda dimostrare che, a dispetto di quel rapporto di parentela, il decesso del paziente non ha causato nei congiunti che hanno agito in giudizio alcun pregiudizio risarcibile“