Vittorio Emanuele Parsi, noto politologo, è rimasto in coma tre giorni dopo un malore ad un convegno a Cortina, lo scorso 27 dicembre. Ora racconta la sua esperienza (https://www.repubblica.it/cronaca/2024/02/16/news/vittorio_emanuele_parsi_coma_moglietiziana-422147918/?ref=RHLF-BG-P9-S1-T1) . Del periodo in coma riferisce:
“Ricordo tutto. Uno Stige, un fiume melmoso, nero, che stava sotto i miei piedi, come Ulisse e Achille. Ricordo di avere visto le radici degli alberi da sotto, come fossi in un crepaccio. E di tanto in tanto, voci lontane. Sentivo una immensa spossatezza. A un certo punto mi sono chiesto se fossi morto. Ho pensato: non ce la faccio, forse basta lasciarsi andare e tutto passerà. La morte non potrà essere tanto peggio”.
Tale testimonianza -come quella di molti che sono usciti dal coma- svela l’insensatezza dell’attuale posizione giurisprudenziale che continua a ritenere che, nello stato di coma, il danneggiato, non avendo alcuna consapevolezza (si parla a proposito di lucidità), non potrebbe percepire il proprio stato e quindi non è vittima di alcun danno.
Evidente la confusione tra il concetto di non comunicabilità all’esterno e la mancata percezione del dolore o di dolorose sensazioni. Il non riuscire a dire non significa infatti non provare o non sentire. Si spera che giudici più attenti possano rivedere tale assurda posizione.