Con la recente sentenza n. 7077 del 15 marzo 2024 la Corte di Cassazione conferma la natura del danno biologico come danno-conseguenza (nota infatti l’idiosincrasia della giurisprudenza nel riconoscere un danno in re ipsa) ed impone la parametrazione dello stesso alla vita probabile (e non a quella effettiva) del danneggiato allorquando la morte, sopravvenuta della vittima, sia stata causata dalla lesione stessa.
La Corte rammenta infatti che: “il danno biologico non consiste nella semplice lesione dell’integrità psicofisica in sé e per sé considerata, bensì nelle conseguenze pregiudizievoli per la persona, sicché, in mancanza di dette conseguenze, difetta un danno risarcibile, altrimenti configurandosi un danno in re ipsa, privo di accertamento sul nesso di causalità giuridica (necessario ex art. 1223 c.c.) tra evento ed effetti dannosi, con l’ulteriore conseguenza che in caso di danno c.d. lungolatente, come quelli di contrazione di epatite da emotrasfusione infetta (nella specie, contagio da HCV), il risarcimento deve essere liquidato solo con riferimento al momento di manifestazione dei sintomi e non dalla contrazione dell’infezione“
In tema di liquidazione del danno biologico iure successionis si precisa poi che: “il principio secondo cui l’ammontare del risarcimento dev’essere parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato si applica nel solo caso in cui quest’ultimo sia deceduto per causa non ricollegabile alla menomazione conseguente all’illecito, mentre, laddove la morte sia intervenuta, dopo una temporanea sopravvivenza, in conseguenza diretta dell’evento lesivo, la liquidazione va operata secondo le tecniche di valutazione probabilistica proprie del danno permanente”