Chi ha vissuto, come chi scrive, la stagione dell’emersione e del riconoscimento del danno esistenziale, ricorda bene il successivo periodo in cui, in una sorta di furia pantagruelica, veniva preteso il risarcimento per ogni situazione. Il frigo rotto, la tintura sbagliata, il tacco divelto in una cerimonia, il distacco temporaneo della corrente, il guasto del televisore: tutto assumeva dignità risarcitoria. Per i detrattori è stato facile strumentalizzare tale incomprensibile ingordigia, innescando la reazione a stringere, anche oltre il dovuto, l’invocata tutela. Fino al punto di affermare che il danno esistenziale, indebitamente ridotto al rango di danno bagatellare, non esistesse, facendolo divenire frutto di una macchiettistica condotta speculativa. Con le famose sentenze di San Martino, la Corte di Cassazione nel 2008 hanno posto una regolamentazione, posto confini certi e rigorosi al danno esistenziale, pur riconoscendone la legittima esistenza nel sistema.
La vicenda trattata dalla sentenza n. 6957 del 14 marzo 2024 della Corte di Cassazione pare riportarci indietro a quel tempo. Si trattava della mancata utilizzazione di una linea telefonica per circa tre mesi, per la quale il Tribunale di Siena aveva risarcito la somma di Euro 70.000, oltre Euro 10.000,00 per condotta temeraria, per comportamento fraudolento della compagnia telefonica. La Suprema Corte (e prima ancora quella di Appello) cancellano la statuizione (riducendo il risarcimento a circa Euro 1.500,00), affermando infatti:
“il fatto illecito da solo non basta a provocare un danno risarcibile, occorrendo (anche) l’allegazione e la prova, che può essere data anche tramite presunzioni, da parte di chi si assuma danneggiato, che il fatto illecito abbia generato una conseguenza pregiudizievole meritevole di tutela risarcitoria; è pacifico e non necessita di approfondimenti in questa sede che non si debba rispondere di mere condotte pregiudizievoli, ma solo di condotte causative di eventi di danno traducibili in perdite, in senso lato, compensabili; ciò non solo trova corrispondenza sul piano probatorio, come si è detto, ma implica altresì una valutazione (giudiziale) sub specie damni da considerare immanente ad un sistema privatistico come il nostro che, di norma, non affida alla tutela risarcitoria una finalità (meramente) sanzionatoria e che comunque non è incline a permettere che la tutela risarcitoria debordi, apprestando riconoscimento e tutela contro ogni forma di disutilità, di malessere, di disagio provocati da un comportamento altrui“.
La Corte poi precisa la funzione equitativa della valutazione del danno svolta dal Giudice, rilevando che:
“la valutazione equitativa presuppone che il danno sia certo nella sua esistenza ontologica cioè che la sussistenza di un danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata; ne consegue che, ove la prova del danno non sia stata raggiunta, non può chiedersi al giudice di creare i presupposti logici e normativi per la liquidazione di quanto richiesto; la ratio della valutazione equitativa, una volta che la prova del danno sia stata raggiunta, e, in mancanza degli elementi necessari per procedere ad una sua puntuale quantificazione, è quella di rimettere al potere-dovere del giudice di sopperire alle eventuali difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria e la ricerca di una omogeneità tra risarcimento accordato e danno risentito; giammai la valutazione equitativa assume valenza surrogatoria della prova del danno, né può pensarsi di utilizzarla per sopperire alla difficoltà di dimostrazione del nesso causale tra l’inadempimento o altra condotta illecita che ne sta alla base ed il danno“.