La vicenda, esaminata dalla Corte di Cassazione (cfr. sentenza n. 7640 del 21 marzo 2024), riguarda un’ipotesi di demansionamento che aveva causato nella lavoratrice un Disturbo dell’adattamento con Ansia ed Umore depresso misti, Cronicizzato, di gravità clinica moderata, etiologicamente promosso da una situazione occupazionale con stress lavorativo, con danno biologico valutato nella misura del 10% di I.P.. Il datore di lavoro, condannato in grado di appello, censurava la sentenza sostenendo che non si sarebbe valutata l’incidenza della condotta della lavoratrice, che non aveva seguito le terapie mediche prescrittele, contribuendo così alla cronicizzazione della patologia, la quale non poteva essergli dunque imputata.
La Corte di legittimità convalida invece il ragionamento operato da quella distrettuale evidenziando in particolare, che, “secondo il perito, il rifiuto di sottoporsi ad adeguata psicoterapia è da ascriversi (…) alla convinzione di dovercela far da sola per poter conservare la propria autostima“, atteso che, da un lato, “la persistenza delle condizioni stressanti è la principale causa della mancata risposta alla terapia“, e che, dall’altro “l’incapacità di prendersi cura adeguatamente di sé, a anche attraverso l’aderenza alle prescrizioni farmacologiche, è spesso parte integrante del disturbo“.
In altre parole la mancata compliance della vittima non è dovuta ad una propria libera scelta ma costituisce il risultato dell’indebolimento della propria capacità di prendersi adeguatamente cura di sé, a seguito del disturbo originato proprio dal demansionamento. Ciò che il responsabile vedeva come un elemento attenuante la propria responsabilità è in realtà un’aggravante allo stesso attribuibile.