La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8367 del 28 marzo 2024, nel respingere un ricorso avverso una sentenza del Giudice di Pace, resa secondo equità, ritene sussistenti le condizioni per applicare l’art. 96 c.p.c. e dunque per la condanna della ricorrente a pagare una somma di Euro 700,00.
La Corte ribadisce infatti come: “come lo scopo di tale norma sia quello di sanzionare una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo” . Tale ipotesi, in particolare, è stata ravvisata, quanto al giudizio di legittimità, in casi o di vera e propria “giuridica insostenibilità” del ricorso non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate con lo stesso, ovvero in presenza di altre condotte processuali al pari indicative dello sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali, e suscettibili, come tali, di determinare un ingiustificato aumento del contenzioso, così ostacolando la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione. Rilevano, in tale prospettiva, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza, oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia“.
Nella specie, l’abuso dello strumento impugnatorio è stato ravvisato nella proposizione del ricorso in aperto contrasto con un orientamento consolidatissimo in ordine ad un aspetto da ritenere “basico” del processo civile, ovvero l’individuazione dei rimedi esperibile avverso le sentenze rese dal Giudice di Pace ormai quasi vent’anni dopo l’entrata in vigore della relativa normativa.