In tema di prova del danno da perdita del rapporto parentale, secondo l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione, spetta alla vittima dell’illecito dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa e, dunque, l’esistenza del pregiudizio subito, onere di allegazione che potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza.
In particolare, poi, “nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello) è l’esistenza stessa del rapporto di parentela che fa presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è, per comune esperienza, connaturale all’essere umano; trattandosi di una presunzione relativa sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite“, come precisato nella recente sentenza dd. 23 aprile 2024 n.10901 della Corte di Cassazione.
Per il riconoscimento dell’esistenza del danno sarà dunque necessario la rigorosa dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale, senza però che “tale serietà e apprezzabilità, peraltro, sconfini necessariamente in un vero e proprio radicale ed eccezionale sconvolgimento delle proprie abitudini di vita, che inciderà, se del caso, sulla personalizzazione del risarcimento, e che costituisce a sua volta onere dell’attore allegare e provare, in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche“
Quindi risulta corretto l’uso dello strumento della prova per presunzioni, in ragione del legame di parentela venuto in rilievo (stretti congiunti) e dell’assenza di dimostrazione da parte dei convenuti che tra la vittima e i superstiti non intercorresse un rapporto effettivo tale da giustificarne il risarcimento