La Corte di Cassazione ribadisce nella sentenza n. 12497 dell’8 maggio 2024 i cardini principali in ordine all’accertamento giudiziario (che non coincide con il concetto di certezza naturalistica dell’accadimento di un fatto) della causalità materiale, affermando che: “i principi causali strutturali adottati dalla giurisprudenza civilistica (a differenza di quella penalistica, a tutt’oggi fondata sulla teoria condizionalistica) sono quelli della regolarità causale, integrata, se del caso, in relazione alle singole fattispecie concrete, da quelli dell’aumento del rischio e dello scopo della norma violata.
Principi causali funzionali (id. est, di causalità specifica del caso concreto, operanti sul piano della prova) di causalità materiale sono quelli (a loro volta difformi da quello penalistico dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale), della probabilità prevalente e del più probabile che non. Il primo criterio (la probabilità prevalente, che può essere più correttamente definito come quello della prevalenza relativa) implica che, rispetto ad ogni enunciato, venga considerata l’eventualità che esso possa essere vero o falso, e che l’ipotesi positiva venga scelta come alternativa razionale quando è logicamente più probabile di altre ipotesi positive, in particolare di quella/e contraria/e (senza che la relativa valutazione risulti in alcun modo legata ad una concezione meramente statistico/quantitativa della probabilità), per essere viceversa scartata quando le prove disponibili le attribuiscano un grado di conferma “debole” (tale, cioè, da farla ritenere scarsamente credibile rispetto alle altre). Il secondo criterio (il più probabile che non) comporta che il giudice, in assenza di altri fatti positivi, scelga l’ipotesi fattuale che riceve un grado di conferma maggiormente probabile rispetto all’ipotesi negativa. In entrambi i casi, il termine “probabilità” non viene riferito al concetto di frequenza statistica, bensì al grado di conferma logica che la relazione tra fatti ha ricevuto sulla base dei fatti storici acquisiti al processo.
Pertanto, ai fini della determinazione del nesso di causalità, in presenza di una pluralità di fatti riferibili a più persone, si deve “a tutti riconoscere – di regola – una efficienza causativa ove abbiano determinato una situazione tale che senza di essi l’evento non si sarebbe determinato; tuttavia tale regola non trova applicazione allorquando la causa per ultima sopravvenuta, per la sua intrinseca idoneità ed autonomia si sganci dalle concause anteriori ed assurga a causa determinante esclusiva dell’evento; per causa sopravvenuta e sufficiente da sola a causare l’evento, ai sensi dell’art. 41 c.p. , deve intendersi quella indipendente dal fatto del presunto responsabile, avulsa dalla sua condotta ed operante con assoluta autonomia così da sfuggire al controllo ed alla prevedibilità di quello; si ha interruzione del nesso causale, per effetto del comportamento sopravvenuto di altro soggetto, soltanto quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare di efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito mentre non si ha interruzione del nesso causale quando, essendo ancora in atto ed in sviluppo il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell’agente, nella situazione di potenzialità dannosa da questi creata si inserisca un comportamento di altro soggetto che sia preordinato proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, di neutralizzare le conseguenze di quell’illecito; illecito che resta, in tal caso, unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dalla adozione di misure difensive e reattive a quella situazione, sempreché rispetto ad essa coerenti ed adeguate“
Alla luce di tali principi di diritto, la Corte ha ritenuto che il primo comportamento illecito (l’intervento di rimozione dei calcoli) sarebbe da considerare unico fatto generatore del danno se, nel corso della fase successiva a tale situazione pregiudizievole, fossero state assunte misure idonee per reagire alla detta situazione e ciononostante fosse rimasto permanente l’evento di danno. In realtà è stato accertato che da parte dei sanitari successivamente intervenuti non vi è stata tempestiva diagnosi. A fronte dell’inadeguatezza del successivo intervento, il giudice del merito ha giustamente considerato fatti generatori dell’evento dannoso sia la condotta dell’operatore, che quella dei sanitari successivamente intervenuti. Del resto si tratta di fatti relativi alla violazione della medesima regola cautelare, posto che entrambi hanno concorso a concretizzare il rischio alla cui prevenzione la detta regola era deputata.