La sentenza n. 13594 del 16 maggio 2024, emessa dalla Corte di Cassazione, consente fare memoria della strage silenziosa. perpetuata dall’amianto, soprattutto a danno dei lavoratori, nell’indifferenza dei datori di lavoro e nella spasmodica ricerca del profitto.
Il lavoratore, protagonista della vicenda, aveva lavorato per circa trent’anni come operaio, con compiti anche di controllo e funzionamento dei macchinari. veniva accertato che l’esposizione del medesimo all’amianto derivava dalla dispersione di fibre provenienti dal materiale presente nelle strutture dell’impianto. Il lavoratore decedeva per carcinoma polmonare differenziato con presenza di “placche pleuriche e corpuscoli di asbesto di valore assai significativo“. La Corte ha ritenuto dimostrato: il danno subito dal lavoratore, cioè la patologia che ha causato il decesso; la nocività dell’ambiente di lavoro per l’esposizione del dipendente all’inalazione di fibre di amianto; il nesso concausale tra tale condizione di nocività e l’evento morte; l’inadempimento datoriale all’obbligo di prevenzione sulla base delle conoscenze scientifiche acquisite all’epoca
Nella fase di merito è stato accertato che anche negli anni (’60-’90) in cui il dipendente operava, la pericolosità del contatto con l’amianto fosse comunque nota. La giurisprudenza di legittimità ha infatti, già da tempo, “ fatto risalire la conoscibilità della pericolosità dell’impiego di amianto ai primi anni del ‘900, attraverso una puntuale analisi delle fonti normative osservandosi che l’imperizia, nella quale rientra l’ignoranza delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno dei parametri integrativi a cui commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in una esimente della responsabilità per il datore di lavoro“. Ed invero “all’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del lavoratore , l’intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto era ben nota, tanto che l’uso di materiali contenenti tali fibre era sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione delle fibre stesse”. Pertanto: “si imponeva, anche per il periodo per cui è causa, l’adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c., e più specificamente al D.P.R. n. 303/56“.
A proposito delle misure di sicurezza cosiddette “innominate”, ex art. 2087 c.c., la Corte di Cassazione, nella richiamata sentenza, ha precisato che: “la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla Legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe“
Nella specie, la Corte territoriale aveva escluso il raggiungimento da parte della società datrice di lavoro della prova liberatoria a suo carico, correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle misure di sicurezza indicate nella sentenza impugnata, non essendo stata dimostrata l’adozione di comportamenti specifici.