La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16348 del 12 giugno 2024, riafferma l’irrisarcibilità del danno tantologico, richiamando la pronuncia delle Sezioni Unite n. n. 15350/15, nella quale si definiva la vita “bene autonomo fruibile solo in natura dal titolare“. Il rigetto del ricorso è stato consequenziale, ritenendosi che non fossero stati offerti “nuovi elementi validi per un eventuale mutamento” del prevalente orientamento in senso negativo al risarcimento.
Ed invero il ricorrente aveva riproposto tutti i classici argomenti alla base del possibile risarcimento del danno da morte. Ossia che: a) costituisce danno non patrimoniale risarcibile anche il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell’ordinamento, anche sul piano della tutela civilistica; b) detto danno, in ragione del diverso bene tutelato, è diverso dal danno alla salute, e, pertanto, si differenzia sia dal danno biologico terminale che dal danno morale terminale (detto anche catastrofale o catastrofico) della vittima; c) detto danno va riconosciuto a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia e, quindi, anche in caso di morte così detta immediata o istantanea, senza che assumano, pertanto, al riguardo rilievo né il presupposto della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento da cui è derivata la morte né il criterio della intensità della sofferenza subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine; d) il diritto al ristoro del danno da perdita della vita viene acquisito dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale (e, quindi, anteriormente, all’exitus letale); e) il diritto al risarcimento del danno da morte è trasmissibile iure hereditatis: sia perché solo chi è in vita può morire; sia perché sarebbe contraddittorio risarcire il danno conseguente alla perdita del bene della salute ma non anche quello conseguente alla perdita del bene della vita, che del costituisce l’ineludibile presupposto; sia perché tale diritto, tramite la successione ereditaria, contribuisce ad incrementare l’eredità lasciata dalla vittima ai propri congiunti, per cui il danno resta pur sempre rapportato ad un soggetto legittimato a far valere il credito risarcitorio.
Il ricorrente non ripropone però (o almeno non viene registrata nella sentenza commentata) l’aspetto più suggestivo, avanzato dall’ultima sentenza in senso positiva della Corte di Cassazione del 2014, ossia che il danno da morte dovrebbe intendersi come “perdita della integrità e delle speranze di vita biologica, in relazione alla lesione del diritto inviolabile della vita, tutelato dall’art. 2 Cost. (vedi espressamente Corte Costituzionale sentenza del 6 maggio 1985 n. 132) ed ora anche dall’art. 11-62 Costituzione europea, nel senso di diritto ad esistere, come chiaramente desumibile dalla lettera e dallo spirito della norma europea”.
Su tale specifico aspetto (ossia la risarcibilità della morte non come perdita della vita ma come perdita in termini di chance di esistenza in capo al defunto prima della morte) la Corte di Cassazione, né a sezioni semplici né a sezioni unite, è mai veramente entrata nel merito. Eppure tale declinazione del danno presenterebbe il vantaggio di superare tutti gli ostacoli avanzati per negare il risarcimento del danno tanatologico.
Pare purtroppo che su questo specifico ambito non sia possibile procedere ad un’analisi piena ed articolata e le avverse posizioni continuano a contrapporsi solo con la riproposizione di formule oramai logore e poco significative.