La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 148 del 25 luglio 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 230, 230-bis terzo comma, 230-ter del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». La decisione è stata l’occasione di un interessante excursus della convivenza more uxorio nell’ambito della normativa e della giurisprudenza nazionale e comunitaria. Non è ignota la rilevanza che ha tale tema anche nell’ambito del risarcimento del danno.
Il fulcro delle questioni di legittimità costituzionale, sollevate nel caso in esame, risiedeva nella portata della tutela del convivente more uxorio (ossia del «convivente di fatto» ex art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016) quale desumibile dalla Costituzione, che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle «formazioni sociali» ove si svolge la sua personalità. Tale è, appunto, la convivenza di fatto, la quale esige una tutela che si affianca a quella che l’art. 29, primo comma, Cost. riserva alla «famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
La Corte Costituzionale afferma che: “la convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell’uso ed è comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale. Questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, comunque, non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure. La diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo, giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi che trova il suo fondamento costituzionale nella circostanza che il rapporto coniugale riceve tutela diretta nell’art. 29 Cost. (ordinanza n. 121 del 2004). Ma vi sono, poi, gli «aspetti particolari“. La Corte precisa che: “in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina, che questa Corte può garantire attraverso il controllo di ragionevolezza imposto dall’art. 3 Cost.” (cfr. sentenza n. 140 del 2009).
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 213 del 2016, ha appunto affermato che: “la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.»; puntualizzando nel caso preso in esame che “l’elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost., mentre in caso contrario il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio“.
Più recentemente la rilevanza della convivenza di fatto è stata presa in considerazione dalla sentenza n. 10 del 2024, in ordine alla delicata questione dell’affettività intramuraria in stato di detenzione. La Corte non ha infatti dubitato: “della inclusione della convivenza tra le relazioni affettive della persona che l’ordinamento giuridico tutela nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza“.
Non di meno la giurisprudenza civile di legittimità ha contribuito al rilievo giuridico della convivenza more uxorio. Ed invero: “premesso che la situazione di convivenza resta non pienamente assimilabile al matrimonio, sia sotto il profilo della stabilità che di quello delle tutele offerte al convivente, tanto nella fase fisiologica che in quella patologica del rapporto, riconosce con orientamento condiviso che, in quanto espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole, cui corrisponde anche un’assunzione di responsabilità verso il partner e il nucleo familiare, l’instaurazione di una stabile convivenza comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il compagno o la compagna dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quale adempimento di un’obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto (come attualmente previsto dall’art. 1, comma 37, della legge n. 76 del 2016), anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 5 novembre 2021, n. 32198)“.
In particolare, nelle più recenti pronunce delle Sezioni unite civili, in caso di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile, si dà rilievo al periodo di convivenza, sia prematrimoniale (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 18 dicembre 2023, n. 35385), che dell’ex coniuge (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 7 febbraio 2023, n. 3645 e ordinanza 5 maggio 2022, n. 14256), quanto alla determinazione dell’assegno divorzile o dell’assegno di mantenimento (Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 12 dicembre 2023, n. 34728), e della convivenza antecedente l’unione civile per la determinazione dell’assegno in favore del componente dell’unione civile (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 dicembre 2023, n. 35969).
L’accertamento dell’esistenza della convivenza – intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale – rileva in tante altre situazioni specifiche: sul risarcimento del danno da perdita della vita del convivente (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 13 aprile 2018, n. 9178 e 16 settembre 2008, n. 23725); sulla sofferenza provata dal convivente in conseguenza dell’uccisione del figlio unilaterale del partner (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 21 aprile 2016, n. 8037); ai fini dell’indebito arricchimento (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 7 giugno 2018, n. 14732); ai fini della legittimazione ad esperire l’azione di spoglio (Corte di cassazione, seconda sezione civile, sentenza 2 gennaio 2014, n. 7); sulla detenzione qualificata dell’immobile adibito a casa familiare assegnato all’ex convivente genitore collocatario di figli minori (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 11 settembre 2015, n. 17971)“.
Nell’ambito europeo, l’adeguamento dell’ordinamento interno al quadro di progressiva evoluzione dei costumi del nostro paese ha trovato conforto e a volte stimolo nei principi della CEDU (che all’art. 8 riconosce il «Diritto al rispetto della vita privata e familiare») e in quelli della CDFUE (che all’art. 9 riconosce il «Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia»). Rileva la Corte che: “l’interpretazione di tali principi ad opera degli organi giurisdizionali sovranazionali si orienta nel senso del riconoscimento della tutela dei diritti legati alla vita privata e familiare all’unione di due persone in sé, anche se dello stesso sesso, a prescindere dalla celebrazione del matrimonio, purché la stessa sia connotata da stabilità“.
Che la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” è una nozione ormai consolidata nella giurisprudenza della Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, paragrafo 1, (Corte EDU, sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio; Corte EDU, sentenza 18 dicembre 1986, Johnston e altri contro Irlanda; Corte EDU, sentenza 26 maggio 1994, Keegan contro Irlanda; Corte EDU, sentenza 5 gennaio 2010, Jaremowicz contro Polonia; Corte EDU, sentenza 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti contro Italia; Corte EDU, sentenza 24 giugno 2010, Schalk and Kopf contro Austria; Corte EDU, sentenza 3 aprile 2012, Van der Heijden contro Paesi Bassi; Corte EDU, grande camera, sentenza 7 novembre 2013, Vallianatos contro Grecia; Corte EDU, sentenza Oliari ed altri contro Italia); l’ambito soggettivo della nozione di «vita familiare» ai sensi dell’art. 8 CEDU include sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate, sia le relazioni fondate sul dato biologico, sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi. Anche l’art. 9 CDFUE, nel riconoscere il «diritto di sposarsi» tra le libertà fondamentali tutelate in modo disgiunto e autonomo rispetto al «diritto di fondare una famiglia», ha realizzato una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto ponendo le basi per un avanzamento nelle possibilità di protezione della molteplicità e varietà delle relazioni ad esse riconducibili“.
In sintesi, la Corte Costituzionale afferma l’esistenza -come indubitabile- di “una convergente evoluzione sia della normativa, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea , che ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto“.