La decisione della Corte di Appello di Bologna, censurata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 23300 del 28 agosto 2024, ha dello sconcertante, ma insegna che ancora nulla può esssere considerato scontato. Così la ripetizione di concetti (anche in questo blog) che a volta sembra inutile, risulta invece importante per non arretrare nell’opera di chiarimento del diritto della responsabilità e del risarcimento del danno.
La Corte Felsinea ha infatti la pretesa (viene proprio di usare tale termine) di rigettare la richiesta di risarcimento, per la morte di un congiunto, utilizzando il seguente pseudo apparato motivazionale: “i danni non patrimoniali iure proprio sono stati chiesti e riconosciuti in favore del marito e del figlio non in forza di un accertamento medico“, bensì “in virtù di “un generico richiamo astratto a “sofferenze psichico-morali e lesioni di diritti costituzionalmente garantiti a tutela della famiglia“, occorrendo, per contro, “la prova di un effettivo pregiudizio biologico e psicologico iure proprio, quale conseguenza del sinistro incorso alla moglie/madre“. Ci si trova di fronte ad un’evidente deriva di massimalismo panbiologizzante in aperto contrasto con la più raffinata dottrina e la più attenta giurisprudenza sul punto.
I ricorrenti (si immagina stupiti di tali affermazioni) sono stati costretti a rivolgersi alla Corte di Cassazione, rilevando che i giudici di merito avrebbero omesso “di considerare che dalla gravità della lesione e dalla pacifica convivenza tra i congiunti avrebbe dovuto evincersi necessariamente la fondatezza del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale subìto e chiesto “iure proprio”, trattandosi di “pregiudizio (non biologico) a bene immateriale” che può essere provato con ogni mezzo, ivi compresa la prova presuntiva, tipicamente integrata dalla gravità delle lesioni e dalla convivenza familiare. In particolare, nel caso di “gravi lesioni personali ad un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza stessa del rapporto parentale deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare, in quanto tale conseguenza è, per comune esperienza, connaturale all’essere umano“.
Si tratta, dunque, di danno -diversamente da quanto affermato dalla sentenza impugnata- non necessariamente biologico o psicologico, da risarcire, comunque, integralmente “nel suo duplice aspetto della sofferenza soggettiva e del conseguito mutamento soggettivo delle abitudini di vita“, purché ricorrano i presupposti “della serietà del danno e della gravità della lesione“
La Corte di Cassazione, con la pazienza di un Giobbe, richiama la propria posizione sul punto, rammentando che è “affermazione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità che ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito, lesioni personali, può spettare anche il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato da lesione del rapporto parentale, in relazione ad una particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 cod. civ., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso”, precisandosi, altresì, che “traducendosi il danno in un patema d’animo ed anche in uno sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto, esso non è accertabile con metodi scientifici e può essere accertato in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 17 maggio 2023, n. 13540, Rv. 667659-01).
Rileva quindi l’evidente errore in cui è incorsa la sentenza impugnata, che, nel negare ristoro ai danni lamentati dagli odierni ricorrenti (e accordati, invece, dal primo Giudice), “relega, infatti, il danno da lesione del rapporto parentale in una dimensione puramente “clinico-nosografica” che, per vero, non gli è mai appartenuta, visto che “la lesione della persona di taluno può provocare nei congiunti”, indifferentemente, “sia una sofferenza d’animo“, sia “una perdita vera e propria di salute“, sia, “una incidenza sulle abitudini di vita” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 8 aprile 2020 n. 7748, Rv. 657507-01).
La lesione del rapporto parentale – al pari della definitiva perdita dello stesso – può produrre (anzi, di regola produce, secondo l’id quod plerumque accidit, e fatta salva la prova contraria) delle ripercussioni nel “vissuto” del congiunto che, sebbene non assurgono a vera e propria compromissione della sua integrità fisiopsichica, meritano egualmente ristoro, perché apprezzabili come “sofferenza eventualmente patita, sul piano morale soggettivo“, ovvero “in termini dinamico-relazionali”, per l’incidenza che quella lesione ha avuto “sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto” interessato (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, n. 28989, Rv. 65622301).
Ciascuno di tali danni è, peraltro, solo impropriamente definito “riflesso“, enfatizzandosi la circostanza che esso risulta “subito per una lesione inferta non a sé stessi, ma ad altri”, mentre, in realtà, esso è pur sempre “la diretta conseguenza della lesione inferta al parente prossimo, la quale rileva dunque come fatto plurioffensivo, che ha vittime diverse, ma egualmente dirette”, ragion per cui non “v’è motivo di ritenere questi pregiudizi soggetti ad una prova più rigorosa degli altri, e dunque insuscettibili di essere dimostrati per presunzioni” (cfr., sempre in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 7748 del 2020, cit.).
Si tratta, dunque, di danni che “possono essere dimostrati per presunzioni, fra le quali assume rilievo il rapporto di stretta parentela esistente fra la vittima ed i suoi familiari che fa ritenere, secondo un criterio di normalità sociale, che essi soffrano per le gravissime lesioni riportate dal loro prossimo congiunto” (così, sempre in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 13540 del 2023, cit.), sicché è proprio “in tale quadro che emergerà, con intuitiva evidenza, il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 28989 del 2019, cit.).
Resta, inoltre, inteso che non sussiste “alcun “limite” normativo per il danno da lesione del rapporto parentale”, nel senso che esso non presuppone, necessariamente, neppure che “gli effetti stabiliti dal danno biologico sul congiunto siano particolarmente elevati” (Cass. Sez. 3, sent. 20 gennaio 2023, n. 1752 Rv. 666922-01; analogamente anche Cass. Sez. 3, ord. n. 13540 del 2023, cit.), la sola questione rilevante essendo, in definitiva, solo quella della prova del danno. Difatti, chi agisce per il suo ristoro, “secondo i principi generali – e dunque anche per via presuntiva – ha l’onere di dimostrare che è stato leso dalla condizione del congiunto, per cui ha subito un danno non patrimoniale parentale, ferma restando la possibilità, per la controparte, di dedurre e dimostrare l’assenza di un legame affettivo, perché la sussistenza del predetto pregiudizio, in quanto solo presunto, può essere esclusa dalla prova contraria, a differenza del cd. “danno in re ipsa”, che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione – danno che non trova cittadinanza nel nostro ordinamento, giusta l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte” (così, ancora una volta, Cass. Sez. 3, ord. n. 13540 del 2023, cit., che richiama Cass. S.U., sent. 11 novembre 2008, n. 26492).