La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24007 del 6 settembre 2024, offre un’esauriente sintesi dell’istituto dell’indennizzo per ingiusta detenzione.
In particolare rammenta che: “la valutazione dell’indennizzo per ingiusta detenzione è sottoposta alla verifica del giudice penale (da ultimo, in proposito v. Cass. pen. n. 25359 del 2023). L’indennizzo per ingiusta detenzione, disciplinato dagli artt. 314 e 315 c.p.p., per espressa previsione di legge non può eccedere la somma massima di 516.456,90 euro. L’ammontare liquidabile per ogni giorno di ingiusta detenzione si ottiene suddividendo l’importo massimo, indicato, per i numeri di giorni contenuti in sei anni. Si ottiene così un valore massimo di Euro 235,82 Euro pro die, moltiplicabile per i giorni di ingiusta detenzione patiti.
Il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è sottratto, di regola, al giudice di legittimità, che può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non sindacare la sufficienza o insufficienza dell’indennità liquidata, a meno che, discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta (Sez. 4, n. 27474 del 02/07/2021; Sez. 4, n. 10690 del 25/2/2010; Sez. 4, n. 24225 del 04/03/2015), precisandosi al contempo che la riparazione per l’ingiusta detenzione non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale, trovando l’istituto fondamento nelle sole norme processuali penali, cui sono estranei i criteri dettati dalle norme civilistiche che regolamentano il risarcimento da fatto illecito ex art. 2043 cod. civ., improntate ad un criterio rigorosamente risarcitorio correlato al pregiudizio patito in termini di lucro cessante o danno emergente (in questo senso, Sez. 6, n. 1755 del 09/05/1991; cfr., altresì, Sez. Un, n. 24287 del 09/05/2001, secondo cui la liquidazione dell’indennità deve avvenire in via equitativa).
Il criterio aritmetico, agganciato al valore massimo indennizzabile diviso per la durata della detenzione riconosciuto dalla normativa penal-processualistica, viene a costituire il criterio medio di calcolo adottato per la liquidazione dell’indennizzo da ingiusta detenzione, suscettibile, in un’ottica equitativa, di variazioni in relazione alla valutazione di circostanze accessorie sia di carattere oggettivo che soggettivo, purché inerenti a valori socialmente apprezzabili, riferite alle caratteristiche proprie del singolo caso, fermo restando che, pur in assenza di rigidi parametri valutativi, stante l’ampio margine di discrezionalità lasciato al giudice della riparazione, è tuttavia necessario, affinché l’equità non tracimi in arbitrio incontrollabile, che vengano individuati in maniera puntuale e corretta i parametri specifici di riferimento, la valorizzazione dei quali imponga di rilevare un surplus di effetto lesivo derivato dall’applicazione della misura cautelare rispetto alle conseguenze fisiologiche, e perciò ordinarie, conseguenti alla privazione della libertà personale, già considerate nei parametri aritmetici giornalieri.
Oltre a ciò, la giurisprudenza penale ha affermato che, in caso di liquidazione di un importo minore, il giudice deve motivare sul perché abbia ritenuto di decurtare l’importo, posto che, nel procedimento di equa riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice deve valutare anche la condotta colposa lieve, rilevante non quale causa ostativa per il riconoscimento dell’indennizzo, bensì per l’eventuale riduzione della sua entità (Sez. 4, n. 21575 del 29/1/2014; conf. Sez. 4, n. 2430 del 13/12/2011).
Quindi, il giudice, ai fini della determinazione dell’indennizzo, deve fondare il suo calcolo sul parametro aritmetico, costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo, fissato in Euro 516.456,90 dall’art. 315, comma secondo, cod. proc. pen. , e il termine massimo della custodia cautelare, pari a sei anni ex art. 303, comma quarto, lett. c), espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita, e può poi aumentare o ridurre il risultato di tale calcolo numerico, sempre nei limiti dell’importo massimo indennizzabile, tenendo conto anche delle eventuali specificità positive o negative del caso concreto nell’ambito di una valutazione che prenda in considerazione non solo la durata della custodia cautelare, ma anche i pregiudizi di carattere personale e familiare legati alla privazione della libertà (Sez. 4, n. 30649 del 27/06/2019) (in applicazione di questi criteri, la recente Cass. pen. n. 25339 del 2023 ha cassato la sentenza impugnata, perché il giudice della riparazione, dopo aver illustrato i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sul tema, aveva poi abbattuto l’indennizzo liquidato nel caso concreto nella misura di 80 Euro al giorno senza alcuna motivazione circa i criteri e le ragioni della decurtazione). La giurisprudenza penale, quindi, indica al giudice della riparazione di prendere come parametro di base il valore medio, con facoltà di discostarsene motivatamente in difetto o in eccesso, pur sempre nei limiti del tetto massimo complessivo, a fronte delle particolarità della vicenda umana e carceraria del destinatario della misura riparatoria“.