La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25023 del 17 settembre 2024 ,ribadisce, con ampia ed approfondita argomentazione, il consolidato suo orientamento, secondo il quale “la responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone (tra le molte Cass. n. 11901/2002; Cass. n. 10966/2004; Cass. n. 2638/2013; Cass. n. 15032/2021; Cass. n. 2348/2022; Cass. n. 2109/2024)“.
La Corte evidenzia infatti la differenzia tra “l’omissione di condotte che, se tenute, sarebbero valse ad evitare l’evento dannoso, dall’omissione di condotte che, viceversa, avrebbero prodotto un vantaggio“; mentre nella prima ipotesi “l’evento dannoso si è effettivamente verificato, quale conseguenza dell’omissione“, nella seconda ipotesi “il danno… deve costituire oggetto di un accertamento prognostico, dato che il vantaggio patrimoniale che il danneggiato avrebbe tratto dalla condotta altrui, che invece è stata omessa, non si è realmente verificato e non può essere empiricamente accertato“. Tale seconda ipotesi è proprio quella che attiene alla responsabilità professionale dell’avvocato per omessa impugnazione del provvedimento sfavorevole, cui è da assimilarsi il caso, trattato nella sentenza emarginata, di tardivo deposito di atto di appello, con conseguente declaratoria di improcedibilità del gravame. Ed è in siffatta ipotesi che l’esito del giudizio, il cui svolgimento è stato precluso dall’omissione del professionista, “non può essere accertato in via diretta, ma solo in via presuntiva e prognostica” – in base alla regola della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ -, per cui l’affermazione della responsabilità risarcitoria “implica una valutazione prognostica positiva” circa la ragionevole probabilità che l’azione giudiziale, che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita, abbia un esito favorevole (tra le altre, segnatamente, Cass. n. 25112/2017 e Cass. n. 10320/2018).
La Corte conferma tale impostazione così escludendo che la ‘mera’ perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio, per effetto dell’inadempimento dell’avvocato alla sua obbligazione professionale (omessa impugnazione, in tutto o in parte, del provvedimento giudiziario sfavorevole), possa costituire un danno, di per sé, risarcibile, a prescindere da una correlazione con il risultato utile cui mira il giudizio stesso.
E per fare ciò i giudici di legittimità muovono, anzitutto, dalla considerazione della natura “di mezzi e non di risultato” di detta obbligazione (Cass. n. 3848/1968; Cass. n. 2230/1973; Cass. n. 7618/1997; Cass. n. 16023/2002; Cass. n. 10289/2015; Cass. n. 30169/2018; Cass. n. 21953/2023) in quanto il professionista si fa carico non già dell’obbligo di realizzare il risultato cui il cliente aspira, bensì dell’obbligo di esercitare diligentemente la propria professione, che a quel risultato deve pur sempre essere finalizzata.
La Corte precisa, richiamando una propria precedente decisione ( Cass. n. 28992/2019), che nelle anzidette obbligazioni (c.d. di ‘diligenza professionale o anche di ‘facere professionale) occorre distinguere: “tra un interesse strumentale, affidato alla cura della prestazione oggetto di obbligazione (art. 1174 c.c.), e un interesse primario, o presupposto, del creditore. L’interesse strumentale è quello che connota la prestazione oggetto dell’obbligazione, ossia il rispetto delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore. L’interesse primario o presupposto non è, invece, dedotto in obbligazione, ma è, però, intimamente connesso a quello strumentale “già sul piano della programmazione negoziale e dunque del motivo comune rilevante al livello della causa del contratto“. Nel caso dell’obbligazione di diligenza professionale dell’avvocato l’interesse primario del cliente/creditore è la “vittoria della causa”, così come nell’obbligazione del medico tale interesse è la “guarigione dalla malattia”; sicché, “(n)on c’è obbligazione di diligenza professionale del medico o dell’avvocato se non in vista, per entrambe le parti, del risultato della guarigione dalla malattia o della vittoria della causa“. Ne consegue che il “danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale riguarda… non l’interesse corrispondente alla prestazione ma l’interesse presupposto”, per cui l’inadempimento della prestazione dedotta in obbligazione comporterà certamente la lesione dell’interesse strumentale, ma non necessariamente di quello primario/presupposto, ponendosi, dunque, l’esigenza di dimostrare che la condotta contraria alle leges artis abbia determinato, eziologicamente, la lesione dell’interesse primario/presupposto e, dunque, il danno evento“.
A fronte di ciò si afferma che: “la responsabilità risarcitoria dell’avvocato non può, infatti, sussistere in ragione soltanto dell’inadempimento all’incarico professionale e, dunque, come conseguenza unicamente della lesione dell’interesse strumentale dedotto in obbligazione. L’inadempimento potrà certamente costituire il presupposto della domanda di restituzione del compenso che il cliente abbia corrisposto al professionista o per consentire al primo di opporsi utilmente alla richiesta in tal senso avanzata da quest’ultimo (avvalendosi dell’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. tra le altre, Cass. n. 22487/2004); e nel perimetro dell’inadempimento, e quindi della lesione dell’interesse strumentale, si collocherà senz’altro anche la condotta imperita/negligente dell’avvocato che abbia cagionato la perdita della possibilità di partecipare ad un giudizio. Tuttavia, ai fini del risarcimento del danno si rende necessaria, altresì, la prova del nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, e il risultato che ne è derivato, ovvero che si sia determinata, in termini di giudizio prognostico, la lesione dell’interesse primario del cliente stesso e cioè la mancata “vittoria della causa” o, in altri ma sovrapponibili termini, il mancato “riconoscimento delle proprie ragioni” nella sede giudiziaria. Diversamente, in assenza di quest’ultimo interesse – che è, in altri termini, l’interesse al c.d. “bene della vita” – non potrà esserci danno risarcibile. Non potrà, quindi, esserci danno risarcibile se si confonde l’interesse primario del cliente, che vale a connotare causalmente il contratto di patrocinio in giudizio concluso con l’avvocato, con quello alla “mera partecipazione” ad un giudizio, affatto sganciato dal “bene della vita” cui tende il giudizio stesso. Non è, infatti, la “mera partecipazione ad un giudizio” l’interesse tutelato dall’ordinamento, il quale è, invece, necessariamente finalizzato al “riconoscimento delle proprie ragioni”, ossia dei diritti/interessi legittimi per i quali soltanto è garantita dall’ordinamento il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.)“.
Tale orientamento teleologico collima, pertanto, con le stesse finalità dell’agire e/o resistere in giudizio. Ed invero: “per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. ‘servizio giustizia’), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative ‘meramente esplorative, ‘dilatorie o, a maggior ragione, ‘emulative, che non potrebbero, dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela. E di ciò dà indiretta conferma, tra l’altro, la stessa disciplina sulla responsabilità aggravata nel giudizio civile (art. 96 c.p.c.), già nella sua originaria formulazione – che annetteva all’area dell’illecito l’agire o il resistere in giudizio (di cognizione o di esecuzione) con modalità comunque abusive (con “mala fede o colpa grave” o “senza normale prudenza”) –, ma ancor più in quella conseguente alla modifica recata dalla legge n. 69 del 2009, che ha introdotto un terzo comma in forza del quale il giudice, “in ogni caso”, può, anche d’ufficio, condannare il soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una “somma equitativamente determinata”. Disposizione, quest’ultima, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 152 del 2016, ha ritenuto di natura eminentemente sanzionatoria, “con finalità deflattive”, correlata alla “offesa arrecata alla giurisdizione, che deve manifestare e garantire la ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un interesse di rango costituzionale intestato allo Stato”. Di qui, pertanto, la ratio di questa misura punitiva, volta a contrastare le condotte “di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti” (così ancora Corte cost., sent. n. 152/2016). La finalità di sanzionare l’abuso processuale che comporta uno “sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali” (tra le altre Cass. n. 5725/2019) è stata, quindi, ulteriormente rafforzata dalla più recente riforma processuale, avendo la novella di cui al D.Lgs. n. 149 del 2022 introdotto nell’art. 96 c.p.c. un quarto comma il quale prevede che, nei casi disciplinati dai commi che lo precedono, il giudice condanni la parte anche al pagamento di una sanzione pecuniaria da versarsi a favore della cassa delle ammende e tanto proprio “a compensazione del danno arrecato all’Amministrazione della giustizia per l’inutile impiego di risorse speso nella gestione del processo” (così la Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 149 del 2022)“.
Da quanto sopra detto discende che: “la perdita della possibilità di una “mera partecipazione” ad un giudizio, nell’ipotesi di omessa impugnazione del provvedimento giudiziario sfavorevole, non vale ad integrare, di per sé, un danno risarcibile, poiché un tale danno, come detto, è configurabile soltanto ove sussista la lesione di un interesse tutelato dall’ordinamento, che, nel caso, va rinvenuto nell’interesse al “bene della vita” del cliente per il cui soddisfacimento è unicamente diretto l’adempimento dell’obbligazione di diligenza professionale forense e cioè (si ripete) l’interesse a “vincere la causa”, a vedersi riconosciute le “proprie ragioni” e, quindi, ad ottenere tutela dei propri diritti/interessi legittimi“.
Tale impostazione, rileva la Corte, non viene meno neppure quando si parla di mera perdita di chances. La Corte richiama a tale effetto due suoi precedenti arresti (Cass. n. 15759/2001 e Cass. n. 22026/2004), nei quali si affermava la risarcibilità del danno “della chance d’intraprendere o proseguire una lite in sede giudiziaria“. A tal fine si è detto che “la partecipazione ad una controversia in sede giudiziaria… anche del tutto indipendentemente dalle maggiori o minori possibilità d’esito favorevole della lite” offre “in ogni caso frequentemente occasione, tra l’altro, di transigere la vertenza o di procrastinarne la soluzione o di giovarsi di situazioni di fatto o di diritto sopravvenute, risultati che indiscutibilmente rappresentano, già di per sé stessi, apprezzabili vantaggi sotto il profilo economico“. Le citate decisioni hanno ritenuto però che il danno potesse liquidarsi, anche qui, soltanto in base ad un “criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili“. Per la Corte dunque: si è: “palesata, ancora una volta, la necessità che il diritto al risarcimento del danno sia ancorato alla sussistenza di un nesso eziologico tra la condotta inadempiente del professionista e il risultato che si sarebbe potuto ottenere in termini di vantaggio per la parte e in presenza di “concrete ragionevoli possibilità” di conseguirlo“. Occorrerà, quindi, che: “quei risultati vantaggiosi (una transazione, l’intervento di uno jus superveniens favorevole alla parte, etc.), quali possibilità ‘ragionevolmente concrete conseguibili nel corso di una lite (e della cui allegazione e prova si deve far carico l’attore che agisce per il risarcimento del danno; ciò che, nella specie, i ricorrenti neppure deducono di aver fornito, accennando soltanto alla astratta possibilità di transazioni), si presentino come eventi suscettibili, in seno ad un giudizio, di rendere tutela ai diritti/interessi legittimi della parte stessa e tali, pertanto, da integrare l’interesse primario/presupposto alla cui soddisfazione è dedotta in contratto l’obbligazione di diligenza professionale dell’avvocato“.
La Corte alla fine enuncia il seguente principio di diritto “non costituisce un interesse giuridicamente tutelabile quello a proporre una impugnazione infondata; ne consegue che la tardiva proposizione, da parte dell’avvocato, di un appello privo di ragionevoli probabilità di accoglimento non costituisce per il cliente un danno risarcibile, e non fa sorgere per l’avvocato un obbligo risarcitorio, nemmeno sotto il profilo della perdita della chance della mera partecipazione al giudizio di impugnazione“.