La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25114 del 18 settembre 2024, si sofferma sul danno alla dignità personale conseguente ai comportamenti verificatisi sul luogo di lavoro. La Corte precisa che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di merito, non è consentito negare tale danno per carenza di allegazioni sull’effettiva portata dei pregiudizi lamentati.
Si afferma infatti che: “la portata mobbizzante dell’assenza di incarichi e dell’assegnazione di un ufficio degradante sono evidenti, come lo sono sia l’essersi tollerato che i colleghi si manifestassero con atteggiamenti emarginatori, sia soprattutto che il direttore generale abbia potuto parlare del ricorrente come un” pezzo di merda”; rispetto a comportamenti così palesemente spregiativi della persona, a parte i profili psichici, che rilevano sul piano del diritto all’integrità psicofisica e che possono sopravvenire o meno, in quanto non è detto che l’offesa altrui sia tale da provocarli necessariamente, non può dirsi che un’offesa alla dignità della persona in quanto tale e come lavoratore, necessiti di ulteriori allegazioni perché il giudice attribuisca un risarcimento. Può essere che migliori dati oggettivi sotto il profilo delle reazioni della vittima (crisi di pianto, deflessione del tono dell’umore etc.) e del contesto in cui i fatti sono avvenuti – questi ultimi aspetti peraltro non del tutto assenti negli illeciti pacificamente verificatisi – consentano di dosare meglio il ristoro equitativo, ma in sé l’offesa alla dignità personale, che è insita nei principi massimi dell’ordinamento (art. 2 e 3 Cost.) ed imprescindibile al vivere sociale, è già ragione di danno all’individuo, come tale da risarcire; anche perché va prestata grande attenzione nel richiedere allegazioni soggettive, che possono facilmente essere esagerate ed amplificate, mentre il dato di base dell’aggressione alla percezione intima di sé propria di ciascun individuo – una volta superata la c.d. soglia minima di tollerabilità (Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972; ora anche Cass. 29 novembre 2023, n. 33276), come nel caso di specie sicuramente è accaduto, visto l’insulto proveniente proprio dal superiore in un contesto di costanti condotte offensive -è ineludibile e mai trascurabile; potrà dirsi in casi di lieve rilevanza che sia sufficiente un ristoro anche di misura non elevata, purché tale da far percepire che l’ordinamento reagisce a ricomporre anche economicamente la violazione della regola intersoggettiva, ma non può ammettersi un rigetto della pretesa per mancanza di ulteriori allegazioni allorquando, come nel caso di specie, l’offensività è palese; già questo solo punto basterebbe all’accoglimento del ricorso, perché il risarcimento sarebbe dovuto anche se non vi fosse il pur lamentato danno alla salute“.
La Corte conclude quindi che: “in presenza di comportamenti offensivi della persona, consistenti in condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, il lavoratore ha diritto, nella misura congrua rispetto al caso di specie ed equitativamente determinata, al risarcimento del danno alla dignità personale, senza necessità di ulteriori allegazioni quanto ai profili pregiudizievoli di tali condotte ed a prescindere dal ricorrere di altri danni“.
Una breve commento: la Terza Sezione della Corte di Cassazione in tema di danno non patrimoniale (nella specie sofferenza morale in seguito al reato attinente appunto alla dignità personale) continua a ripetere che non si tratta di un danno in re ipsa, in quanto non esiste nell’ordinamento la possibilità di risarcire un danno in sé (e su tale asserto si poggia l’irrisarcibilità del danno tanatologico), ma solo di danno conseguenza. Ma quanto la Sezione Lavoro afferma, an che in questa sentenza, in tema di danno da mobbing assomiglia molto ad un danno in re ipsa. Come risolvere il contrasto?