La Corte di Cassazione, con la sentenza del 21 ottobre 2024 n. 27142, rileva la la violazione dei criteri indicati dalla giurisprudenza ai fini della valutazione del danno parentale da parte della Corte di Appello di Torino. Il rigetto della domanda di riconoscimento del danno morale jure proprio si fondava infatti sull’assunto che i figli del deceduto erano in un’età pienamente adulta relativamente alla quale non si potessero ritener presumibili né la perdurante dipendenza economica né la convivenza con i genitori e che nulla fosse stato specificato in sede di allegazione circa la natura e intensità della relazione con il padre, e ciò a differenza della moglie convivente che lo aveva assistito in tutto il percorso ospedaliero.
In sede di legittimità si ribadisce che: “la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, procedendo ad un accertamento concreto e non astratto, dando ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni“.
La Corte poi rammenta di aver, già in plurime occasioni, chiarito che: “in tema di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, sussiste una presunzione iuris tantum di esistenza del pregiudizio configurabile per i membri della famiglia nucleare “successiva” (coniuge e figli) che si estende anche ai membri della famiglia “originaria” (genitori e fratelli), senza che assuma ex se rilievo il fatto che la vittima ed il superstite non convivessero o che fossero distanti; tale presunzione impone al terzo danneggiante l’onere di dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, con conseguente insussistenza in concreto dell’aspetto interiore del danno risarcibile (c.d. sofferenza morale) derivante dalla perdita, ma non riguarda, invece, l’aspetto esteriore (c.d. danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva (desunta dalla coabitazione o da altre allegazioni fornite di prova)”
Al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, la Corte afferma che: “il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella”.
Con riferimento al caso di specie, la Corte di Cassazione rileva come il danno morale subito dai figli non è stato messo in discussione dalla convenuta, così la sentenza di merito è certamente errata sotto questo profilo. Quanto all’ulteriore componente del danno dinamico-relazionale si precisa che: “la Corte territoriale non ha dimostrato di avere tenuto adeguatamente conto dei fatti allegati sin dal primo atto, da cui è presuntivamente desumibile l’intensità della relazione dei figli con il padre all’interno della famiglia nucleare, in virtù della stretta relazione parentale tra i figli, giovani adulti con il medesimo ancora conviventi, e il padre, prematuramente scomparso, atteso che il grado di parentela non è stato messo in discussione. Risulta pertanto del tutto contradittoria perché non idoneamente correlata alle circostanze allegate, la motivazione, là dove, confondendo l’an debeatur con il quantum debeatur, assume che lo sforzo di allegazione di parte attrice è stato del tutto insufficiente e fondato su allegazioni generiche, solo per il fatto che non sono presumibili né la perdurante dipendenza economica (circostanza marginale in tale ambito di valutazione), né la convivenza che, come visto, non appare neanche quale elemento essenziale ai fini del decidere. Lo stato di filiazione, del tutto pretermesso, avrebbe dovuto essere preso in considerazione ai fini della configurazione di un danno parentale; mentre sul piano del quantum del risarcimento, la Corte di merito avrebbe avuto ampia discrezionalità nel decidere secondo i criteri sopra enunciati, tenendo conto dei fatti allegati in ordine alla natura e intensità della relazione con il padre“.