La Corte di Cassazione, con la sentenza del 19 novembre 2024 n. 29815, dà continuità al proprio precedente orientamento, procedendo ad una sistematica ed articolata ricostruzione della questione.
La Corte ricorda infatti che: “in anni alquanto risalenti si era determinata una sorta di contrasto tra la sentenza 9 maggio 2000, n. 5881, e la sentenza 4 novembre 2003, n. 16525. In particolare, la prima decisione affermò che nella liquidazione del danno alla salute la scelta del valore monetario del punto d’invalidità deve essere effettuata senza tenere conto della minore speranza di vita futura che il danneggiato potrà avere, in conseguenza del sinistro; ciò in quanto, diversamente operando, il danneggiante verrebbe a beneficiare di una riduzione del risarcimento tanto maggiore quanto più grave è il danno causato. Da tale affermazione prese consapevolmente le distanze la sentenza n. 16525 del 2003 la quale affermò, invece, che, ove la prognosi di speranza di vita per il danneggiato sia accertata sulla base di conoscenze scientifiche (ad esempio, tramite consulenza tecnica), il giudice di merito “deve liquidare il danno biologico non con riferimento alla speranza di vita media nazionale, ma alla prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato“. Ed aggiunse che non poteva valere il suindicato contrario argomento della sentenza n. 5881 del 2000 – secondo cui il danneggiante verrebbe in tal modo a trarre vantaggio dal proprio stesso illecito – perché “il risarcimento del danno biologico ha una funzione solo di riparazione e di reintegrazione degli effettivi pregiudizi subiti, e quindi è strettamente connesso alla durata nel tempo di detti pregiudizi da parte del danneggiato”. Si deve rilevare, peraltro, che nel caso deciso da quella sentenza la vittima, che era una bambina, era già venuta a mancare nelle more dello svolgimento del giudizio, anche se di tale elemento la Corte ritenne di non poter conto per ragioni processuali“.
Tale “contrasto” veniva sanato dalla medesima Corte (cfr. Cass. Civ. 27 settembre 2021 n. n. 26118), la quale aveva osservato, dando coerenza al sistema, che lo steso: “era, in realtà, solo apparente. Richiamate le categorie nelle quali si inseriscono le varie forme di danno alla salute, la sentenza citata ha rilevato che tra i postumi permanenti causati da una lesione alla salute “rientra anche il maggiore rischio di una ingravescenza futura”, ed ha inquadrato tale forma di lesione nella figura del c.d. danno latente. Tale danno “consiste nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l’infermità residuata all’infortunio possa improvvisamente degenerare in un futuro tanto prossimo quanto remoto, e differisce dal mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell’infermità”. Richiamando ulteriori precedenti in argomento, quella sentenza ha osservato che “il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus costituisce per la vittima una lesione della salute”. In altri termini, ogni malattia con postumi permanenti può naturalmente evolversi nel senso di un aggravamento; ma se la malattia è talmente grave da diventare essa stessa la causa di una prognosi di vita drammaticamente abbreviata, ebbene in questa ipotesi il danno latente è in sé una forma di danno alla salute“.
Ed è proprio questo il caso di cui il Giudice di legittimità è chiamato a decidere (una bambina, a causa del danno da negligenza dei sanitari, accertato con pronuncia ormai irrevocabile, riportava un quadro patologico così pesante che la sua aspettativa di vita, per come accertata dalla c.t.u., si era ridotta a circa trent’anni). La Corte è chiamata quindi a pronunciarsi se nel caso in esame il danno non patrimoniale biologico debba essere liquidato sulla base di quella che è l’aspettativa di vita media del danneggiato oppure sulla base dell’aspettativa di vita concreta quale consegue alla gravità della patologia determinata dalla responsabilità dei sanitari.
Il Collegio risponde all’interrogativo dando ulteriore continuità a quanto già affermato con la richiamata sentenza n. 26118 del 2021, superando così i possibili (o ipotetici) contrasti emergenti dalle pronunce più risalenti. Ed invero afferma: “come la decisione ora ricordata ha affermato, se il rischio “di contrarre malattie in futuro o di morire ante tempus, a causa dell’avverarsi del rischio latente, costituisce un danno alla salute, di esso si deve tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, secondo le indicazioni della medicina legale”. Il che viene a significare che il c.t.u., chiamato a valutare la percentuale di invalidità permanente sulla quale calcolare il danno biologico, dovrà incrementare quel valore proprio per tener conto del rischio latente; facendo così, la liquidazione potrà avvenire tenendo conto della minore speranza di vita in concreto, e non di quella media. Ma se, al contrario, il c.t.u. non avesse considerato il rischio latente nel calcolare la percentuale di invalidità permanente, allora di quel pregiudizio “dovrà tener conto il giudice, maggiorando la liquidazione in via equitativa: e nell’ambito di questa liquidazione equitativa non gli sarà certo vietato scegliere il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima: e dunque in base alla vita media nazionale, invece che alla speranza di vita del caso concreto” (così ancora la sentenza n. 26118 del 2021). La pronuncia qui richiamata ha concluso nel senso che quest’ultimo sistema di calcolo, ancorato alla durata della vita media nazionale, “sarà possibile nei casi più gravi, e cioè quando massimo è il divario tra la vita attesa secondo le statistiche mortuarie e la concreta speranza di vita residuata all’infortunio“. Il che è proprio quanto si è verificato nel caso odierno, perché, come si è detto, una neonata è venuta alla luce con un complesso di patologie così gravi da ridurre la sua aspettativa di vita al breve tempo suindicato (trent’anni)“.
Alla luce di quest’orientamento – che, tra l’altro, risulta essere stato confermato anche dalla Sezione Lavoro (sentenza 1 dicembre 2022, n. 35416) – la Corte è del parere che il quadro patologico evidenziato dalla sentenza impugnata, caratterizzato dalla presenza di gravissime patologie, del tutto prive di ogni possibilità di guarigione, cui si collega un’elevatissima percentuale di invalidità permanente (92,5 per cento) siano di per sé elementi decisivi per respingere il motivo in esame (ossia parametrare il danno biologico alla ridotta aspettativa di vita), perché si è in presenza di un divario massimo tra le statistiche di vita media e la concreta aspettativa di vita della piccola. E non è pensabile che: “in una situazione del genere, nella quale ci sono ridottissimi margini di aumento della percentuale di invalidità, il danneggiante possa trarre addirittura vantaggio dall’incredibile gravità del danno arrecato“.