La Corte di Cassazione, con la sentenza del 19 novembre 2024 n.29815, rammenta che: “nella giurisprudenza di questa Corte il principio della compensatio lucri cum damno è ormai un patrimonio acquisito; è la caratteristica stessa della responsabilità civile da illecito, che è per sua natura ripristinatoria, a vietare che il danneggiato possa conseguire, a titolo di risarcimento, qualcosa di più di quanto gli è stato sottratto a causa del fatto dannoso.
In materia di danno da emotrasfusioni con sangue infetto il principio fu enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte già con la sentenza 11 gennaio 2008, n. 584. Successivamente, le Sezioni Unite sono intervenute ancora in argomento con un gruppo di pronunce del 2018, fra le quali è opportuno richiamare, in particolare, la sentenza 22 maggio 2018, n. 12567, nella quale si è detto che, in ossequio al suindicato principio, dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’ente pubblico, in conseguenza di quel fatto, essendo tale indennità rivolta a fronteggiare ed a compensare direttamente il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito, consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore o assistente per le esigenze della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto“.
La successiva e più recente giurisprudenza, dettata per lo più in materia di emotrasfusioni con sangue infetto, ha tuttavia chiarito che: “l’indennizzo di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno) solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il lucrum. Ciò anche perché la liquidazione del danno aquiliano deve portare alla quantificazione di un importo certo e determinato che non è possibile rimettere al giudice dell’esecuzione, dovendo il dispositivo della sentenza di condanna essere completo e suscettibile di esecuzione senza ulteriori accertamenti (v., tra le altre, le sentenze 22 agosto 2018, n. 20909, e 7 marzo 2022, n. 7345, nonché le ordinanze 30 agosto 2019, n. 21837, 31 marzo 2021, n. 8866, e 15 luglio 2022, n. 22331). Questo principio sta a significare che l’applicazione di tale regola non può costituire il frutto di una sorta di opzione teorica resa necessaria per affermare la correttezza del principio, ma deve essere conseguenza di un’effettiva dimostrazione, da parte del debitore, del fatto che il versamento di una somma ulteriore a titolo di risarcimento dei danni verrebbe a determinare un’ingiustificata locupletazione a favore del creditore“.
Nel caso di specie la Corte di Cassazione rileva che tale prova manca totalmente nel caso in esame, nel quale la Corte d’Appello ha stabilito che la danneggiata non poteva, allo stato, godere della pensione di invalidità e che ella neppure beneficiava dell’indennità di accompagnamento, per cui la questione era priva di rilevanza. A fronte di tale motivazione: “la censura proposta dalla ricorrente, benché corretta, non contesta le risultanze di fatto e si limita ad affermare, con una prospettiva che è chiaramente, almeno allo stato, non attuale, che essa, dopo aver pagato la somma posta a suo carico dalla sentenza a titolo di assistenza della danneggiata, potrebbe essere poi esposta all’azione di rivalsa dell’INPS; ma è evidente che questa è un’ipotesi teorica che non può condurre alla cassazione della sentenza“.