Nel caso che i postumi, conseguenti al fatto illecito subito, possano provocare un nuovo e diverso pregiudizio consistente in una ulteriore invalidità o nella morte ante tempus, tale rischio costituisce una specifica lesione della salute del danneggiato, da considerare nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente secondo le indicazioni della medicina legale.
E’ questo l’orientamento costante della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ. n. 26118/2021; Cass. Civ. n. 35416/2022) circa il c.d. danno latente (https://studiolegalepalisi.com/2024/11/25/la-ridotta-aspettativa-di-vita-ed-il-c-d-danno-latente/), che viene confermato con il recente arresto del 9 dicembre 2024 n. 31684.
La Corte afferma che: “Il “rischio latente” e, in definitiva, rappresentato dalla potenziale progressione offensiva insita nella lesione permanente, la cui eventuale degenerazione, in una prospettiva diacronica, è idonea a produrre un nuovo danno che potrà alternativamente consistere nell’insorgenza di una nuova invalidità o nella morte ante tempus del danneggiato. Ai fini del risarcimento, si rende, quindi, necessario comprendere se tale rischio di ingravescenza dei postumi della lesione sia stato incorporato nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, suggerito dal medico-legale e condiviso dal giudice, quale sua componente. In tale ipotesi, la liquidazione del danno, per evitare duplicazioni risarcitorie (che si avrebbero nella congiunta applicazione dell’incremento del grado di percentuale dell’invalidità permanente e del parametro della vita media), dovrà effettuarsi in considerazione della “(minore) speranza di vita in concreto, e non di quella media“.
Se invece: “il “rischio latente” non è stato incluso nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente (o perché non contemplato dal barème utilizzato o per omissione del consulente), il giudice deve tenerlo in considerazione maggiorando la liquidazione in via equitativa, anche scegliendo il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima, dunque, in base alla durata media nazionale della vita, anziché alla speranza di vita del caso concreto“
In questi termini la Ciorte di Cassazione che viene a ricomporsi il contrasto, solo apparente, tra i suoi precedenti orientamenti che privilegiano ora il parametro della “vita media” ora quella della “speranza della vita in concreto“.
Nel primo senso (Cass. n. 5881/2000; Cass. n. 8204/2003; Cass. n. 28168/2019) si ritiene, infatti, che: “il danno biologico da invalidità permanente deve essere modulato in rapporto alle aspettative di vita media ascrivibili ad un soggetto sano della stessa età del danneggiato, poiché la contrazione dell’aspettativa di vita concreta del danneggiato, rispetto ad un soggetto medio della medesima età, è causalmente determinata dal fatto illecito e il danneggiante non deve beneficiare di una riduzione del risarcimento in conseguenza di un’aspettativa di vita ridotta che egli stesso ha causato. E tra i pregiudizi da risarcirsi vi sono anche le esperienze e i vantaggi sottratti al danneggiato o, ancora, la possibilità di beneficiare di sopravvenute acquisizioni scientifiche nell’ambito medico, che ne possono consentire una più lunga sopravvivenza“.
Per contro, si è reputato (Cass. n. 16525/2003) che, ai fini della liquidazione del danno biologico da invalidità permanente: “è necessario fare riferimento alla concreta aspettativa di vita del danneggiato ove sia accertato uno scarto tra essa e l’aspettativa di vita media di un soggetto della medesima età, benché ciò sia addebitabile all’illecito commesso dal danneggiante. Tuttavia, per contemperare due esigenze contrapposte frutto di tale impostazione liquidatoria -ossia, evitare, per un verso, che sia vulnerato il principio dell’integralità del risarcimento e, per altro verso, che la funzione del risarcimento stesso possa essere distorta e orientata verso orizzonti punitivi – occorre che il giudice proceda alla “personalizzazione” del risarcimento e, quindi, in base alle specificità del caso concreto, valorizzi la “gravità particolare della lesione, che ha inciso anche sulla capacità recuperatoria, o quanto meno stabilizzatrice, della salute, accelerando la “discesa” verso la morte e rendendo più gravoso quel minus esistenziale che accompagna la residua vita della vittima“.
La Corte conclude che: “la ricomposizione ad unità delle richiamate posizioni compiuta in base alla valorizzazione del c.d. “rischio latente”, nei termini sopra descritti, pone in rilievo l’elemento comune agli orientamenti (apparentemente) contrapposti, ossia l’esigenza, fondamentale, di rispettare il principio di integralità del risarcimento, per cui è dovuto al danneggiato tutto quanto, in conseguenza dell’illecito, è stato sottratto alla sua sfera patrimoniale, ma non di più (e cioè, secondo una risalente espressione: “tutto il danno e nulla più che il danno”); e questo postula, specularmente, che l’autore del fatto illecito non debba lucrare “uno sconto” sulla integrale liquidazione del danno. Di qui, pertanto, anche la chiara riconducibilità della liquidazione del danno biologico di cui si discute alla funzione riparatoria e non punitiva della responsabilità civile. Dunque, a un siffatto risultato mirano, in effetti, entrambi i ricordati orientamenti, sebbene tramite percorsi diversi, la cui sintesi – dalle coordinate innanzi illustrate – è fornita dal condivisibile approdo rappresentato dalla teorica del c.d. “rischio latente“.
Un’ulteriore conferma in tale prospettiva la Corte la rinviene nel principio di preferenza della liquidazione del risarcimento del danno grave alla persona sotto forma di rendita vitalizia ex art. 2057 c.c..
Ed invero richiamando una sua precedente pronuncia (cfr. Cass. n. 31574/2022) si è affermato che: “se la durata della vita del danneggiato sarà, in concreto o presumibilmente, inferiore alla durata della vita media, e ciò a causa delle lesioni, il responsabile sarà tenuto a risarcire il danno (biologico) sotto forma di rendita -la cui base di calcolo si fonderà non sulla speranza di vita in concreto, bensì su quella media di un soggetto sano“. La Corte rileva che a tal riguardo, si è, altresì, precisato, significativamente, che: “la liquidazione del danno biologico tramite la rendita, cessando con la morte del beneficiario, non avvantaggia “il responsabile del fatto illecito in tutti i casi in cui proprio la gravità delle lesioni provochi una ridotta aspettativa di vita per la vittima, determinando una riduzione dello stesso risarcimento” e, quindi, un vulnus al principio della sua integralità. Ciò in quanto la determinazione del capitale che costituisce il criterio di calcolo da cui ricavare la rendita deve avvenire secondo il coefficiente corrispondente “all’età effettiva del danneggiato” e con riferimento “alla durata media della vita”, senza, dunque, tenere in alcun conto “la minore speranza di vita della vittima”. In altri termini, il valore della rendita “dovrà essere computato tenendo conto non delle concrete speranze di vita del danneggiato, bensì della vita media futura prevedibile secondo le tavole di mortalità elaborate dall’ISTAT, a nulla rilevando che, nel caso concreto, egli abbia speranza di sopravvivere solo per pochi anni, ovvero che non risulti oggettivamente possibile determinarne le speranze di sopravvivenza, qualora tale ridotta speranza di sopravvivenza sia conseguenza dell’illecito”. In tal modo, si verranno a risarcire “per equivalente tutte le conseguenze dannose dell’illecito che il danneggiato sarà costretto a sopportare, giorno per giorno, sino alla fine della sua vita”, là dove, poi, “allo spirare dell’esistenza, di danno biologico e morale del soggetto leso non è più dato discorrere”.
Dunque: “la cessazione della corresponsione della rendita vitalizia per la morte del danneggiato ante tempus rispetto all’aspettativa di una vita più lunga secondo quanto previsto dalle statistiche mortuarie non ha come effetto uno “sconto” sul risarcimento in favore dell’autore dell’illecito, giacché quella rendita è stata calcolata secondo un coefficiente che ha tenuto conto della vita media del danneggiato e non della sua minore speranza di vita. E questo sta a significare, pertanto, che la liquidazione del danno alla salute avviene in base ad un meccanismo correttivo idoneo ad assicurare che la vittima sia ristorata di tutte le “perdite” dinamico-relazionali patite e non di più“.