La Corte di Cassazione (sentenza del 24 febbraio 2025 n.4776) rigetta il capo di domanda relativo al danno catastrofale, a fronte della mancata prova di esso. Ed invero afferma che: “il richiamo al ragionamento presuntivo, che pure è effettuato nell’intestazione del motivo, ma non adeguatamente sviluppato in punto di diritto (giova in materia richiamare: Cass. n. 3541 del 13/02/2020 Rv. 657016 – 01), è fallace, posto che al fine di applicare il detto ragionamento è necessario che vi siano dei fatti certi dai quali partire per potere affermare che sia stata raggiunta la prova del fatto da provare. Nel caso di specie il dato certo, ossia la lunghezza del periodo di malattia di Ci.Eg. non conduce a ritenere provato che egli fosse consapevole della fine imminente. Il danno catastrofale, o da lucida agonia, si concretizza nel periodo tra la lesione e l’imminenza della fine della vita, allorché in detto torno di tempo, necessariamente breve (alcune ore, secondo la giurisprudenza di questa Corte, o, al più, pochi giorni: Cass. n. 23153 del 17/09/2019 Rv. 655508 – 01 e Cass. n. 18056 del 05/07/2019 Rv. 654378 – 03), la persona lesa rimanga vigile e cosciente e acquisisca e sviluppi la tragica consapevolezza della propria ineluttabile e prossima morte. Nella specie, secondo la prospettazione dei ricorrenti, il loro congiunto sarebbe rimasto in detto stato per quasi un anno, detratti i soli giorni in cui venne posto in stato di coma farmacologico, il che non consente di apprezzare positivamente l’effettiva consapevolezza della prossimità del termine della vita da parte di Ci.Eg.
In tema è sufficiente richiamare la sentenza della Corte impugnata laddove essa riporta la sentenza del Tribunale, a pag. 19 e alla successiva, testualmente: “ma la consapevolezza dell’inevitabile exitus non può neppure desumersi presuntivamente: nella cronologia della lunga malattia si sono succeduti momenti acuti e di stabilizzazione, improvvisi peggioramenti ma anche dei momenti di speranzosa ripresa, per cui, in assenza di una precisa allegazione e prova, non è dato conoscere se e quando il paziente abbia effettivamente preso coscienza che si stava spegnendo. Il motivo di ricorso si incentra, del tutto apoditticamente, su un passo della consulenza tecnica di ufficio e su alcuni documenti, dai quali dovrebbe desumersi, applicando il metodo presuntivo, che Ci.Eg. fosse cosciente dell’imminenza della propria fine. In concreto i documenti sono costituiti dall’informativa relativa al rischio operatorio, dalla quale, nondimeno, non è dato in alcun modo individuare una consapevolezza in capo all’operando dell’imminenza della propria morte imminente, trattandosi di modulo che usualmente viene fatto sottoscrivere prima di operazioni con impiego di anestesia, e dell’elogio funebre dei congiunti, redatto dagli stessi e che quindi alcuna efficacia probatoria ha in punto di consapevolezza dell’imminenza della fine della vita del soggetto cui esso si riferisce, salvo che i ricorrenti intendano che lo avevano preparato prima del decesso e su disposizione dello stesso Ci.Eg., il che, peraltro, non risulta in alcun modo provato“.
La decisione pur corretta in via astratta lascia però nell’estrema difficoltà (se non proprio nell’impossibilità) la parte che voglia dimostrare la sussistenza di tale danno, quasi volendosi pretendere una dichiarazione, sottoscritta dal morituro, che attesti di essere consapevole dell’imminente sua morte. E’ plausibile, contrariamente a quanto affermano i Giudici, che un lungo periodo di malattia, sempre più ingravescente, possa costituire un elemento rilevante per presumere che un soggetto, maturo e ragionevole, configuri il proprio exitus e quindi soffra di ciò. Forse il rigore dimostrato dalla Suprema Corte è inconsapevolmente determinato dalla contiguità di tale voce di danno con quello tanatologico (il primo è stato storicamente riconosciuto nel rigetto del secondo), così che tale vicinanza ha portato un approccio ideologico anche nei confronti del danno catastrofale con un innalzamento massimo del livello probatorio .