Un paziente citava in giudizio, avanti il Tribunale di Siena, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese perché ne fosse accertata la responsabilità per “errati trattamenti sanitari … in occasione dell’intervento chirurgico” e perché fosse quindi condannata a risarcirgli i conseguenti danni, patrimoniali e non patrimoniali. Espletata la CTU, il Tribunale di Siena condannava la convenuta a risarcire l’attore nella misura di euro 201.072,94 oltre interessi. La Corte di Appello di Firenze, annullava la sentenza, ritenendo che vi fosse stata ultrapetizione avendo il primo giudice ritenuta responsabile l’Azienda non per come fu eseguito l’intervento – come chiesto- bensì per modalità della gestione post-operatoria.
La Corte di Cassazione (sentenza del 16 febbraio 2025 n. 3916) afferma in proposito che: “in caso di intervento chirurgico, non è possibile separare artificiosamente la responsabilità per l’intervento inteso come attività materiale sul corpo della persona soggetta ad esso dalla responsabilità per l’immediata fase successiva, che ne costituisce, a ben guardare, il radicalmente connesso momento conclusivo, id est un componente delle inscindibili conseguenze; d’altronde non è sostenibile che l’attore cui è stato esperito l’intervento si trovi automaticamente in una situazione di conoscenza scientifica corretta e adeguata tale da poter dedurre anteriormente all’istruttoria in modo del tutto specifico l’attività del sanitario, così da identificare completamente, fin dal primo atto costituente in jus vocatio, le origini fattuali della – pur già lamentata – responsabilità di quest’ultimo“.
La Suprema Corte rileva che ciò: “è stato già ben riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte; tra gli arresti massimati, infatti, da ultimo Cass. sez. 3, ord. 23 aprile 2024 n. 10901 afferma chiaramente: “nel giudizio di risarcimento del danno derivato da colpa medica non costituisce inammissibile mutamento della domanda la circostanza che l’attore, dopo avere allegato nell’atto introduttivo che l’errore del sanitario sia consistito nell’imperita esecuzione di un intervento chirurgico, nel concludere alleghi, invece, che l’errore sia consistito nell’inadeguata assistenza postoperatoria, dovendosi considerare il fatto costitutivo, idoneo a delimitare l’ambito dell’indagine, nella sua essenzialità materiale, senza che le specificazioni della condotta, inizialmente indicate dall’attore, possano avere portata preclusiva, stante l’inesigibilità dell’individuazione ex ante di specifici elementi tecnico-scientifici, di norma acquisibili solo all’esito dell’istruttoria e dell’espletamento di una c.t.u. (In applicazione del principio, la S.C., in una fattispecie di decesso di un paziente dovuto a shock settico conseguito ad una lesione intestinale, ha rigettato i motivi di ricorso con cui si censurava la sentenza d’appello per aver basato il giudizio di responsabilità su un fatto diverso, sia rispetto a quello posto a fondamento della condanna in primo grado – diversamente individuando l’errore di esecuzione dell’intervento, nonostante la mancanza di appello incidentale sul punto – sia riguardo a quello dedotto con l’atto di citazione, individuando ulteriori profili di responsabilità nella mancata applicazione di drenaggi, dedotta da parte attrice solo in comparsa conclusionale, e nell’omessa vigilanza post-operatoria, rilevata solo con l’appello incidentale); sulla stessa linea si rinviene la contemporanea Cass. sez. 3, ord. 15 marzo 2024 n.7074; e cfr. pure, anteriormente, Cass. sez. 6-3, ord. 26 luglio 2012 n. 13269 e Cass. sez. 3, 19 maggio 2004 n. 9471“.
Conclude pertanto per l’assenza di alcuna ultrapetizione, come erroneamente dichiarato, invece, dal giudice d’appello.