Veniva formulati diversi motivi di cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Bari, che aveva rigettato la richiesta risarcitorio dei fratelli di un lavoratore deceduto in un infortunio sul lavoro.
In particolare si rilevava: a) l’omessa considerazione che la prova del danno non patrimoniale da sofferenza interiore per la perdita del familiare può essere fornita mediante presunzione fondata sull’esistenza dello stretto legame di parentela, secondo un criterio di normalità sociale ossia che essi soffrano per le lesioni mortali patite dal loro prossimo congiunto ovvero per la drammatica e prematura dipartita di quest’ultimo e grava, pertanto, sul convenuto fornire la prova contraria che dovrà essere imperniata non già sulla mera mancanza di convivenza (che, in tali casi, può rilevare al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione), bensì sull’assenza di legame affettivo tra i germani superstiti e la vittima nonostante il rapporto di parentela; b) la mancata applicazione del ragionamento presuntivo, in particolare non considerando che grava sul convenuto-danneggiante l’onere di provare l’assenza di legami tra la vittima e i fratelli al fine di vincere la presunzione relativa (iuris tantum) posta in favore dei danneggiati; c) il trascurato rilievo che la convenuta non solo non aveva provveduto a fornire alcuna prova idonea a vincere la suddetta presunzione di danno per la recisione del rapporto parentale in capo ai ricorrenti.
La Corte di Cassazione (sentenza dell’11 marzo 2025 n.6500) accoglie i tre motivi, cassando la statuizione del Giudice di merito. Rileva in particolare che non grava sul danneggiato la necessità di prova con riferimento al danno morale (a differenza del danno dinamico relazionale), affermando che: “questa Corte ha affermato – e reiteratamente ribadito – il principio secondo il quale la morte di una persona causata da un illecito fa presumere da sola, ex art. 2727 cod. civ., una conseguente sofferenza morale in capo, oltre che ai membri della famiglia nucleare “successiva” (coniuge e figli della vittima), anche ai membri della famiglia “originaria” (genitori e fratelli), a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur); in tali casi, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo (Cass. 15/02/2018, n. 3767; Cass. 15/07/2022, n. 22397; v. anche Cass. 30/08/2022, n. 25541 e, già, Cass. 16/03/2012, n. 4253)“.
Dando continuità a questo principio – e portandolo alle sue ulteriori specificazioni, avuto riguardo ai due distinti profili (morale e dinamico relazionale) delle possibili conseguenze non patrimoniali risarcibili della lesione di interessi costituzionalmente protetti (Cass. 17/01/2018, n. 901)- osserva infatti che: “la presunzione iuris tantum (che onera il convenuto della prova contraria dell’indifferenza affettiva o, persino, dell’odio) concerne l’aspetto interiore del danno risarcibile (c.d. sofferenza morale) derivante dalla perdita del rapporto parentale, mentre non si estende all’aspetto esteriore (c.d. danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva (desumibili, oltre che dall’eventuale convivenza – o, all’opposto, dalla distanza – da qualsiasi allegazione, comunque provata, del danneggiato), delle quali il giudice del merito deve tenere conto, ai fini della quantificazione complessiva delle conseguenze risarcibili derivanti dalla lesione estrema del vincolo familiare“.
A dette affermazioni decisorie il Collegio ha inteso prestare adesione, traendone le medesime conseguenze, cosicché anche nel caso scrutinato, rilevando che: “la conclusione alla quale è pervenuta la Corte territoriale, in ordine all’esclusione delle conseguenze risarcibili derivanti dalla lesione estrema del vincolo familiare non è coerente con la giurisprudenza di questa Corte, intesa quale diritto vivente. In particolare nella fattispecie in esame il rilievo della Corte di merito, secondo cui il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, pur essendo dedotto tra membri appartenenti alla famiglia nucleare “originaria” (fratelli), avrebbe dovuto essere specificamente provato da coloro che ne invocavano il risarcimento, deve, dunque, ritenersi erroneo in diritto, in quanto la circostanza che questo pregiudizio integrasse un danno-conseguenza (ovverosia, una conseguenza – non patrimoniale – risarcibile dell’evento lesivo) non intaccava (quanto meno limitatamente alla componente interiore di tale conseguenza risarcibile, costituita dalla sofferenza morale) la presunzione, sia pure relativa (iuris tantum), della sua sussistenza, in base alla quale gravava sul danneggiante, e quindi nella specie sul datore di lavoro, l’onere di fornire la prova contraria. La giurisprudenza di questa Corte ha, in un recente passato, ritenuto applicabile la presunzione semplice, ai sensi dell’art. 2727 c.c., anche ai fratelli (o sorelle) unilaterali della persona deceduta (Cass. n. 24689 del 5/11/2020), rimarcando che compete al responsabile provare che tra la vittima e il superstite none esisteva alcun vincolo affettivo (Cass. n. 23917 del 22/10/2013 Rv. 629114 – 01).