La Corte di Cassazione (sentenza del 31 marzo 2025 n. 8481) ribadisce che, in tema di risarcimento del danno biologico, nell’ipotesi in cui la persona offesa sia deceduta, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito: “l’ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto; e, d’altra parte, non è giuridicamente configurabile un danno risarcibile in favore della persona per il tempo successivo alla sua morte (Cass., 29/12/2021, n. 41933, che richiama Cass., 3/10/2003, n. 14767, Cass., 24/10/2007, n. 22338, Cass., 31/01/2011, n. 2297, Cass., 14/11/2011, n. 23739, Cass., 18/01/2016, n. 679, Cass., 26/05/2016, n. 10897, e Cass., 26/06/2020, n. 12913; conf. anche, ad esempio, Cass., 29/05/2024, n. 15112)“;
In ordine all’applicazione dell’apposita tabella predisposta dal Tribunale di Milano, il Collegio rileva che: “la stessa giurisprudenza (Cass., n. 41933 del 2021), ha chiarito che la (seconda) premessa dalla quale muove la tabella milanese applicata (la prima, appunto è che un criterio liquidativo diversificato per fasce di età sia inidoneo a esprimere la peculiarità della fattispecie, essendo utilizzato per calcolare l’aspettativa di vita, concetto che diviene irrilevante nel momento in cui la persona viene a mancare), ossia quella per cui il danno non è una funzione costante nel tempo ma è ragionevolmente maggiore in prossimità dell’evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi, non è condivisibile sia sul piano logico che su quello giuridico, perché non ha senso ipotizzare che un danno possa decrescere nello stesso momento in cui lo si definisce, appunto, permanente; ciò è confermato proprio dal confronto tra il sistema di liquidazione del danno biologico da invalidità permanente che le tabelle milanesi seguono per il caso di sopravvivenza della vittima fino alla conclusione del giudizio, con quelle del danno da premorienza; le prime sono regolate secondo un criterio statistico, nel senso che la liquidazione avviene in base al punto di invalidità e all’età della vittima, che rileva anche perché indica, tendenzialmente, secondo le aspettative di durata media della vita, per quanti anni la vittima dovrà convivere con la sua menomazione (Cass., n. 41933 del 2021); come sopra si è già in altri termini indicato, una volta che il giudizio termina col passaggio in giudicato della sentenza, la liquidazione diventa definitiva, senza che assuma più alcun rilievo il momento in cui la vittima effettivamente viene a mancare, proprio perché il calcolo si fonda pure su di un’aspettativa di vita; il danno da premorienza, come si è visto, prende le mosse dal fatto che la vittima è morta prima che il giudizio finisca, per cui il calcolo del danno biologico va compiuto, come detto, sulla base di un dato ormai certo e non più ipotetico, ma “una tabella sul danno da premorienza, per poter essere “equa”… deve partire dal presupposto che a parità di durata della vita residua deve corrispondere, ovviamente in caso di uguale invalidità permanente, un risarcimento uguale. Detto in termini più semplici, il danno già sopportato per un tempo certo…non può essere liquidato meno di un danno che verosimilmente si sopporterà, in futuro, per un identico arco di tempo. Il tempo, infatti, esprime la durata della sofferenza (ovvero del pregiudizio) che si è patita o che si dovrà patire, ma a parità di durata deve corrispondere, tendenzialmente, parità di risarcimento” (Cass., n. 41933 del 2021)”;
La Corte infine precisa che: “il diffuso riconoscimento delle tabelle milanesi non le rende per ciò solo immuni da vaglio critico in termini razionali; il fatto, poi, che le tabelle in parola (peraltro applicate dalla Corte territoriale), dal 1995 (anno delle prime griglie pubblicate), considerino fasce di età fino a 100 anni non corrisponde, logicamente, alla considerazione di una tale e peraltro in tesi costante aspettativa di vita sulla base dei dati statistici, che sarebbe notoriamente irrealistica (a maggior ragione circa 30 anni fa), ma solo al fatto che, concettualmente, si è così scelto di ricostruire il valore del punto, prendendo a misura lo spettro anagrafico di un secolo per assicurare proporzionali abbattimenti “percentuali”, fermo restando che l’aspettativa statistica generale è come noto ancora di diversi anni inferiore, senza che sposti la conclusione il fatto che una singola persona abbia vissuto e stia vivendo in concreto oltre quella soglia “attesa” (al di là, poi, della vita “sperata”, ricostruibile secondo ulteriori dati anche statistici, per quei soggetti che superino la vita attesa da riferire alla popolazione complessiva); anche sul punto, le considerazioni della Corte territoriale sono errate, quando, nel proporre il calcolo alternativo ipotizzano che, in base al discusso riferimento tabellare, il numero di anni corrispondente all’aspettativa statistica di vita, in ragione del quale dividere il valore economico ottenuto sottraendo alla monetizzazione del 75% d’invalidità quella del 70% per il computo del danno differenziale, al riguardo non oggetto di censura, dovrebbe corrispondere alla differenza tra 100 (anni) e gli anni che aveva la vittima al momento del ricovero, ovvero 76 (dal che 24); come spiegato dall’arresto di riferimento più volte richiamato (Cass., n. 41933 del 2021), il valore differenziale in questione potrà essere ragionevolmente suddiviso per gli anni vita residua statistica, certamente inferiore, per poi moltiplicare quanto ottenuto per quelli di vita effettivamente vissuta, ottenendo quindi un risultato certamente superiore a quello avuto dalla piana applicazione delle tabelle milanesi in parola e anche, necessariamente, a quello, infatti ancor inferiore, computato secondo l’ipotesi alternativa formulata dal Collegio di merito assumendo un’aspettativa statistica di vita di 100 anni; dev’essere ricordato ancora una volta che si tratta di una liquidazione equitativa, rispetto alla quale devono solo evitarsi insostenibili irragionevolezze; ne consegue la cassazione della decisione sul punto“.