Con la sentenza del 20 marzo 2025 n. 7462, la Corte di Cassazione manda esente da responsabilità un avvocato che, a causa dell’interpretazione di un istituto giuridico (quello del mandato difensivo e della sua ultrattività), aveva determinato la soccombenza dell’impugnazione in appello, dichiarata inammissibile proprio per difetto di procura.
Sul tema specifico ampie sono state le oscillazioni da parte della giurisprudenza. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno emesso, in argomento, almeno quattro pronunce negli ultimi quarant’anni: la sentenza 21 febbraio 1984, n. 1228 (favorevole all’ultrattività della procura); la sentenza 19 dicembre 1996, n. 11394 (contraria all’ultrattività); la sentenza 28 luglio 2005, n. 15783 (contraria all’ultrattività), e la sentenza 4 luglio 2014, n. 15295 (nuovamente favorevole all’ultrattività). Risulta quindi evidente che si tratti di questione lungamente dibattuta, con esiti contrastanti. Il caso specifico (cioè quello del soggetto minorenne che diviene maggiorenne nel corso del giudizio di primo grado) costituisce quello che potrebbe definirsi un sottoinsieme, ovvero un problema specifico e ulteriore, diverso da quello della morte e della perdita della capacità processuale, posto che il raggiungimento della maggiore età costituisce un fatto obiettivo, pacifico e non imprevedibile.
La Corte di merito napoletana, chiamata a decidere della causa promossa dal cliente nei confronti del proprio avvocato, rilevava che, nel periodo intercorrente tra le due citate sentenze delle Sezioni Unite n. 11394 del 1996 e n. 15783 del 2005, vi erano state numerose pronunce che avevano contraddetto il principio enunciato dalla decisione del 1996, ribadendo la regola dell’ultrattività della procura; tanto che sull’argomento erano dovute tornare le Sezioni Unite con la sentenza del 2005, poi nuovamente smentita nel 2014. Sulla base di tale incertezza interpretativa riteneva corretta la condotta dell’avvocato. Si annota però che i giudici di merito hanno trascurato di considerare che comunque, in questo dibattito, le due posizioni non erano certo paritarie, in quanto quella che negava l’ultrattività del mandato schierava addirittura le Sezioni Unite della Corte di Cassazione!
La Corte di Cassazione conferma la spiegata “assoluzione” rammentando che: “l’obbligo di diligenza professionale gravante sul difensore gli impone, in presenza di orientamenti giurisprudenziali consolidati, ancorché non condivisi, di adottare la scelta processuale che meglio gli consenta di tutelare le ragioni del cliente, assumendo una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, derivanti dalla prevedibile applicazione dell’orientamento ermeneutico da cui il difensore dissente (ordinanze 28 febbraio 2014, n. 4790, e 21 luglio 2023, n. 21953; si veda pure, in ordine agli atti interruttivi della prescrizione, la sentenza 14 febbraio 2017, n. 3765). È stato però anche affermato che, in tema di responsabilità dell’avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito ex ante e non ex post, sulla base dell’esito del giudizio; mentre l’imperizia resta comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali presentino margini di opinabilità, in astratto o con riferimento al caso concreto, tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente (sentenza 10 giugno 2016, n. 11906)“.
Orbene nel caso di specie, il Collegio rileva che: “la questione dell’ultrattività della procura non poteva considerarsi risolta in giurisprudenza, nel momento in cui l’appello fu proposto, in una maniera certa e inconfutabile, né sopiti i relativi contrasti. Senza necessità di stabilire se le pronunce contrarie all’orientamento delle Sezioni Unite nella sentenza n. 11394 del 1996 fossero almeno sette, come afferma la Corte napoletana, o se invece, come afferma il ricorrente, quei sette precedenti fossero “solo una goccia, in un oceano di decisioni contrarie”, ciò che assume rilievo decisivo è che il dubbio esisteva e la soluzione data dalle Sezioni Unite non era stata unanimemente recepita. E la riprova di questo risulta, come pure ha detto la Corte di merito, dal fatto stesso che le Sezioni Unite furono chiamate a pronunciarsi di nuovo sull’argomento nel 2005, cioè nove anni dopo; salvo ritornare ancora sui propri passi con la sentenza n. 15295 del 2014, la quale ha riaffermato il principio dell’ultrattività della procura e a tutt’oggi, a quanto risulta, non ha ricevuto smentite. Il che viene a significare che l’avv. Ca.Co., nel momento in cui propose l’appello confidando nella permanente validità della procura sottoscritta in primo grado dal tutore dell’allora minorenne Co.Fa., poteva ragionevolmente confidare nel fatto che quella procura fosse ultrattiva. E tanto basta a far sì che il giudizio espresso dalla Corte d’Appello sull’inesistenza di una responsabilità professionale del difensore resista alle censure poste nel primo motivo, non emergendo dalla sentenza impugnata una valutazione in diritto così tanto discutibile da dover essere cassata nel presente giudizio di legittimità (sentenza n. 28903 del 2024 cit.)“.
Per la Corte quindi: “l’esistenza del dubbio, o quantomeno il carattere perplesso dei divergenti orientamenti, non consente neppure di ritenere validamente richiamato il principio di precauzione di cui al secondo motivo dell’odierno ricorso. La linea difensiva tenuta dall’avv. Ca.Co., infatti, non può essere considerata, alla luce dei precedenti suindicati, in contrasto con un orientamento giurisprudenziale pacifico rispetto al quale il difensore era in dissenso, quanto piuttosto l’adesione ad un filone di pronunce certamente non esiguo né isolato; il che impone, nonostante l’indubbia suggestività delle argomentazioni, di rigettare anche il secondo motivo“
E’ facile notare che nella decisione riportata è completamente omessa la posizione del cliente e la sua conoscenza (o meglio la sua ignoranza) sulla circostanza che il proprio difensore avesse deciso di contrastare la posizione delle Sezioni Unite. Ed invero per risolvere il problema della responsabilità professionale non si può mai prescindere da questo aspetto, perché il coinvolgimento del cliente nelle scelte assunte (previa informazione adeguata al livello dello stesso) costituisce anche la migliore prevenzione da successive contestazioni.
Si può immaginare la scena. Il Collega convoca in studio il Cliente e dopo aver svolto una comprensibile (per quest’ultimo) ricostruzione del ricco dibattito giurisprudenziale sull’ultrattività della procura, gli comunica che la posizione che la nega non lo convince affatto anzi per lui è del tutto infondata. Gli comunica quindi che per impugnare la sentenza del Tribunale utilizzerà la procura precedente, ritenendo non necessaria che firmi una nuova versione della stessa. Il Cliente titubante gli chiede cosa si rischia con tale decisione e pronto il il Collega confessa (per onestà): “perdere la causa“. Ora mi chiedo quale cliente -per il bene supremo della correttezza giuridica- avrebbe mai permesso di procedere in tal senso e non avrebbe invece lesto chiesto dove dover mettere la firma sulla nuova procura?
Non si vuole qui limitare la meritoria azione dell’avvocato nel ruolo di innovatore del diritto (Capograssi direbbe nella creazione dell’esperienza giuridica) ma evitare che tali battaglie siano combattute sulla pelle di un cliente, molte volte all’oscuro. Ed invero le stesse avvengono solo quando i due interessi (quello sostanziale del Cliente e quello ideale dell’avvocato) coincidono. Non certo quando divergono, solo per il gusto della sfida, pur a fronte dell’esiguità dell’onere che la posizione sgradevole impone.
Sia detto per inciso che si potrebbe pur pensare (“pensare male si fa peccato ma a volte si azzecca“, ammoniva Andretti) che tale decisione non sia stato frutto di una deliberata scelta dell’avvocato: il collega ha solo automaticamente utilizzato la procura precedente (per il nostro mal vezzo di arrivare al limitare della scadenza dei termini) non pensando di quanto si stava discutendo in giurisprudenza sulla natura ultrattiva o meno della stessa (ma questa è una malignità del tutto avvocatesca)
Ora immaginiamo la scena, sopra evocata, in ambito medico. La Corte di Cassazione avrebbe mai graziato un medico che, all’insaputa del paziente, avesse proceduto in senso difforme ad un orientamento autorevole ma ritenuto errato, determinandone un danno ? La storia delle Linee Guida rende scontata la risposta.
Il problema reale (e ancora più grave): nell’ambito di responsabilità dell’avvocato l’habitus mentale è ancora tradizionale, identico a quello dei giudici di cinquant’anni fa nei confronti del medico, per la giustificata supposta onnipotenza e discrezionalità decisionale del sanitario. La responsabilità professionale dell’avvocato ha ancora quindi molti passi da compiere, configurandosi ancora come un fratello minore di quella ben più evoluta in ambito medico. Per coerenza e per onestà intellettuale, questa sostanziale posizione di impunità, per chi svolge quotidianamente l’attività in ambito di responsabilità sanitaria, non può essere accettata, sapendo dell’insopportabile gusto del privilegio.
Perchè alla fine, avvocato o medico, dovremmo essere tutti uguali davanti alla Legge. Forse.