La Corte di Cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 2,3,13,24,32,111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 33,34 e 35 della legge n. 833 del 1978, “nella parte in cui non prevedono che il provvedimento motivato con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera sia tempestivamente notificato all’interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l’avviso che il provvedimento sarà sottoposto a convalida del giudice tutelare entro le 48 ore successive e con l’avviso che l’interessato ha diritto di comunicare con chiunque ritenga opportuno e di chiedere la revoca del suddetto provvedimento, nonché di essere sentito personalmente dal giudice tutelare prima della convalida; nonché nella parte in cui non prevedono che la ordinanza motivata di convalida del giudice tutelare sia tempestivamente notificata all’interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l’avviso che può presentare ricorso ai sensi dell’art. 35 della legge 833/1978“.
La Corte rimettente ha ritenuto che quello disciplinato dagli artt. 33,34 e 35 della legge n. 833 del 1978 sia un trattamento sanitario coattivo ai sensi degli artt. 32 e 13 Cost., che in quanto tale dovrebbe rispettare le garanzie richieste da entrambe le disposizioni costituzionali; tuttavia, la mancata previsione sia della comunicazione alla persona interessata del provvedimento sindacale che dispone il trattamento, sia della notificazione alla stessa del decreto di convalida del giudice tutelare, nonché la sua mancata audizione da parte del giudice prima della convalida determinerebbero una lesione dell’art. 13 Cost., considerato insieme all’art. 24 Cost., in relazione al diritto di azione e di difesa in giudizio, e all’art. 111 Cost., per cui è giusto solo il processo che si svolge nel contraddittorio. Un provvedimento che, sul presupposto di un’alterazione psichica, provoca la temporanea limitazione della libertà di autodeterminarsi nella scelta delle cure e che si accompagna a una coazione fisica richiederebbe un giudizio assistito dalle suddette garanzie costituzionali, che l’attuale disciplina legislativa non prevede. Sotto altro profilo, la Corte di cassazione ha osservato che altri provvedimenti amministrativi restrittivi della libertà personale, quali l’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio, devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo. Proprio in relazione alle persone fragili, inoltre, ad avviso della Corte rimettente l’ordinamento prevederebbe modelli procedurali che, pur semplificati, quando incidono su diritti costituzionali contemplano sempre l’audizione della persona, come il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno. Il giudice a quo ritiene, inoltre, che la vigente normativa lederebbe il diritto a un ricorso effettivo, che troverebbe fondamento nel giusto processo garantito dall’art. 111 Cost. e, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., dagli artt. 6 e 13 CEDU, i quali esprimerebbero, congiuntamente considerati, alcuni connotati essenziali della funzione giurisdizionale. Tali connotati sarebbero pregiudicati dalla mancata notificazione del provvedimento avverso cui il soggetto dovrebbe ricorrere, con il paradosso che il destinatario del provvedimento non avrebbe neppure contezza della sua esistenza, non potendo conoscere né confutare le ragioni che ne costituiscono il fondamento e incontrando così un ostacolo insormontabile nell’accesso in tempo utile alla giustizia.
La Corte Costituzionale, con la sentenza emessa il 31 maggio 2025 n. 76 (Presidente Amoroso – Redattore Petitti) procede una esauriente ricostruzione della disciplina legislativa del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera e del suo inquadramento nel sistema delle garanzie costituzionali, affermando: “Il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera è regolato dagli artt. 33,34 e 35 della legge n. 833 del 1978, con i quali è stata trasposta nella legge istitutiva del servizio sanitario nazionale la disciplina introdotta pochi mesi prima dalla legge n. 180 del 1978, la cosiddetta legge Basaglia. Quest’ultima, disponendo la chiusura dei manicomi, ha segnato il passaggio da una visione custodialista, finalizzata alla difesa sociale, a una visione volta alla cura della persona affetta da disabilità psichica, costituendo una tappa fondamentale del cambiamento di paradigma culturale, scientifico e normativo nel trattamento della salute mentale e contribuendo al riconoscimento, anche in favore delle persone affette da disabilità mentale, della pienezza dei diritti costituzionali (sentenza n. 99 del 2019).
Lo stesso art. 33 della legge n. 833 del 1978, al secondo comma, riconduce gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori all’art. 32 Cost., stabilendo che essi si svolgono «nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura». E tanto dispone con portata generale, riferendosi a tutti i cosiddetti trattamenti sanitari «obbligatori» – così nella rubrica dell’articolo – disposti dal sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico, compresi i trattamenti obbligatori extraospedalieri. Gli artt. 33, 34 e 35 della legge n. 833 del 1978 ne disciplinano i presupposti sostanziali e le condizioni procedimentali.
Quanto ai profili sostanziali, il trattamento può essere adottato «solo se», ai sensi dell’art. 34, quarto comma, della citata legge, ricorrono tre presupposti: a) l’esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; b) la mancata accettazione degli stessi da parte dell’infermo; c) l’assenza di condizioni e circostanze per l’adozione di tempestive e idonee misure extraospedaliere. In relazione al secondo presupposto sostanziale (la mancata accettazione degli interventi), l’art. 33, quinto comma, prevede che i trattamenti «devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato», prospettando il trattamento coattivo come extrema ratio, in coerenza con il principio espresso dal primo comma della stessa disposizione, per cui «[g]li accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari». La legge, inoltre, circonda il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera di garanzie procedimentali e processuali.
Le garanzie procedimentali precedono l’adozione del provvedimento sindacale e consistono in un duplice parere medico. Il provvedimento è adottato su proposta motivata di un medico (art. 33, terzo comma) sottoposta a «convalida» – così testualmente l’art. 34, quarto comma, ultimo periodo – di un secondo medico dell’unità sanitaria locale, dunque appartenente al servizio sanitario nazionale, normalmente uno specialista in psichiatria. Il sindaco adotta il provvedimento che dispone il trattamento entro quarantotto ore dalla convalida da parte dello specialista (art. 35, primo comma), motivando espressamente in ordine all’esistenza dei tre presupposti sostanziali sopra richiamati, tra cui la ricerca dell’alleanza terapeutica e l’assenza di soluzioni per ovviare al ricovero ospedaliero (art. 34, quarto comma, ultimo periodo). Secondo la giurisprudenza di legittimità, i richiamati presupposti sostanziali costituiscono autonomi elementi di valutazione della cui esistenza la motivazione del decreto di convalida deve dare conto ai fini della validità della misura (Cass., ord. n. 509 del 2023; in questo senso, già Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 23 giugno 1998, n. 6240). Costituiscono garanzie procedimentali, inoltre, il diritto della persona, nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, di comunicare con chi ritenga opportuno e il diritto, esercitabile da chiunque, di chiedere al sindaco la revoca o la modifica del provvedimento che ha disposto il trattamento o della sua proroga (art. 33, commi sesto e settimo).
Sul piano processuale l’art. 35 della legge n. 833 del 1978 disciplina la convalida giurisdizionale. La disposizione prevede che il provvedimento sindacale deve essere notificato, entro quarantotto ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune (art. 35, primo comma). Il giudice tutelare, entro le successive quarantotto ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o a non convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida, il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera (art. 35, secondo comma). La proroga del trattamento oltre il settimo giorno ripete lo schema originario della proposta motivata del medico, del provvedimento sindacale e della convalida giurisdizionale (art. 35, quarto comma). Non è previsto un termine massimo di durata del trattamento. L’omissione delle comunicazioni previste dalle richiamate disposizioni comporta la cessazione di ogni effetto del provvedimento e, salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, configura il reato di omissione di atti d’ufficio (art. 35, settimo comma).
I successivi commi dell’art. 35 della legge n. 833 del 1978 disciplinano il controllo giurisdizionale sui provvedimenti adottati, nella forma del contraddittorio differito. Per ciò che qui rileva, la persona sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio e chiunque vi abbia interesse possono proporre ricorso contro il provvedimento sindacale convalidato avanti al tribunale competente per territorio (art. 35, ottavo comma). Come la stessa ordinanza di rimessione rileva, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che la nozione di «chiunque», ai fini della possibilità di proporre opposizione, comporti una legittimazione diffusa, circoscrivendola in capo a soggetti che abbiano un interesse concreto e attuale a far valere la legittimità del trattamento, in ragione di un rapporto stretto e personale con il paziente che vi è sottoposto (Corte di cassazione, ordinanze n. 4229 e n. 4000 del 2024). Nel giudizio di opposizione, la parte può stare in giudizio personalmente o assistita da un difensore. Il decreto di fissazione dell’udienza è notificato alle parti e al pubblico ministero. Su istanza della parte o del pubblico ministero, il presidente del tribunale può disporre la sospensione del trattamento prima dell’udienza di comparizione, evidentemente laddove sia ancora in corso (art. 35, commi decimo e seguenti).
Dal punto di vista delle garanzie costituzionali, il trattamento sanitario in degenza ospedaliera costituisce un vero e proprio trattamento sanitario coattivo, in quanto disposto contro la volontà dell’interessato e incidente sulla sua libertà fisica. La misura si pone così sul crinale tra la libertà di autodeterminazione in materia di salute e la regola del consenso, da un lato, e l’esigenza di protezione della salute della persona stessa, dall’altro, che giustifica in via d’eccezione un trattamento contro la sua volontà imposto mediante coazione fisica. Per costante giurisprudenza di questa Corte, allorché un trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come obbligatorio, e dunque rimesso alla spontanea esecuzione, ma come coattivo, potendo il destinatario esservi assoggettato con la forza, le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. si aggiungono a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela la libertà personale. Incide, infatti, sulla libertà personale ogni misura che comporti una coazione fisica della persona, salvo che la restrizione della libertà di disporre del proprio corpo abbia carattere momentaneo e del tutto trascurabile (sentenze n. 203 del 2024, n. 205, n. 127 e n. 22 del 2022, n. 275 del 2017, n. 222 del 2004, n. 105 del 2001 e n. 419 del 1994). Tra le misure restrittive della libertà personale questa Corte ha annoverato anche ogni trattamento medico suscettibile di essere eseguito con la forza nei confronti del paziente, ritenendolo per ciò stesso qualificabile non solo come obbligatorio ai sensi dell’art. 32, secondo comma, Cost., ma anche come coattivo ai sensi dell’art. 13 Cost. (sentenze n. 203 e n. 135 del 2024, n. 22 del 2022 e n. 238 del 1996). Presupposto del trattamento di cui all’art. 35 della legge n. 833 del 1978, invero, è la mancanza di consenso della persona interessata. Inoltre, il trattamento è portato a esecuzione coattiva dai vigili urbani, in quanto polizia amministrativa sanitaria, mediante accompagnamento presso un presidio ospedaliero da cui la persona non può allontanarsi per tutta la durata della misura, prevista per un termine ordinario di sette giorni, salva proroga da disporsi, come detto, reiterando le fasi e i presupposti del procedimento originario. In relazione alla previgente disciplina dell’internamento coattivo in manicomio, di cui alla legge n. 36 del 1904, d’altra parte, questa Corte ritenne che il ricovero per necessità e urgenza disposto dall’autorità di pubblica sicurezza rientrasse «tra quelli restrittivi della libertà personale» ai sensi dell’art. 13, terzo comma, Cost. (sentenza n. 74 del 1968). È indubbio, dunque, che ai trattamenti sanitari coattivi si applicano tutte le garanzie dell’art. 13 Cost., proprio in conseguenza della situazione di evidente assoggettamento fisico della persona a un potere pubblico in grado di vincere con la forza ogni sua contraria volontà (sentenze n. 203 e n. 135 del 2024, n. 22 del 2022 e n. 238 del 1996).
La riconducibilità del trattamento sanitario coattivo alle garanzie congiunte degli artt. 13 e 32 Cost. determina il carattere eccezionale dell’istituto e ne illumina la ragion d’essere. Proprio l’incidenza sulla libertà personale comporta che il trattamento sanitario coattivo debba operare quale extrema ratio, ossia nell’osservanza del principio del minor sacrificio necessario, desumibile dall’art. 13 Cost. in relazione a tutte le misure privative della libertà personale (sentenza n. 22 del 2022, concernente le REMS; sentenza n. 250 del 2018, relativa alle misure di sicurezza detentive; sentenza n. 179 del 2017, in tema di pena detentiva; sentenza n. 265 del 2010, riferita alle misure cautelari). Questa Corte ha affermato, infatti, che gli artt. 13 e 32, secondo comma, Cost., unitamente all’art. 2 Cost., che tutela i diritti involabili della persona, tra cui la sua integrità psicofisica, esigono che il legislatore preveda trattamenti sanitari coattivi in chiave, appunto, di extrema ratio ed entro i limiti della proporzionalità in rapporto alle necessità terapeutiche e al rispetto della dignità della persona (sentenza n. 22 del 2022).
Il requisito della ricerca del consenso fino a dove è possibile, già presente nella legge Basaglia e poi nella legge n. 833 del 1978, risulta oggi ulteriormente rafforzato dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che ha affermato, rispetto alla generalità dei trattamenti medici, la necessità, di regola, del consenso libero e informato del paziente maturato in seno all’alleanza terapeutica con il medico: necessità che questa Corte aveva, peraltro, già da tempo dedotto dagli artt. 2,13 e 32, secondo comma, Cost. (sentenze n. 438 del 2008, n. 253 del 2009, n. 242 del 2019, n. 135 del 2024, n. 66 del 2025; ordinanza n. 207 del 2018).
Quanto alle finalità che legittimano il trattamento sanitario coattivo, esse trovano la loro ragion d’essere essenzialmente nell’art. 32 Cost. L’ordinanza di rimessione dà atto di come, nell’attuale contesto normativo, siano scomparsi i riferimenti alla pericolosità per gli altri e al «pubblico scandalo» che, invece, connotavano le misure di ricovero provvisorio o definitivo nei manicomi nella già richiamata legge n. 36 del 1904. In quella disciplina, la richiesta di ricovero coattivo – previsto senza limiti di tempo, dunque anche per l’intera vita – poteva essere formulata non solo dai parenti dell’infermo, ma anche da chiunque altro nell’interesse «della società». Chiamata a pronunciarsi su quella disciplina, come già ricordato, questa Corte ne diede una lettura costituzionalmente orientata anche sotto il profilo delle finalità, affermando che il ricovero «non è disposto contro il soggetto a titolo di pena o di misura di sicurezza, ma, quanto meno prevalentemente, a favore di lui, a protezione della sua salute e della sua integrità fisica» (sentenza n. 74 del 1968).
Nell’ottica dell’attuazione del disegno costituzionale relativo alla centralità della persona, i ricordati presupposti sostanziali del trattamento sanitario coattivo, previsti dagli artt. 33 e 34 della legge n. 833 del 1978, riflettono la finalità eminente cui il trattamento è indirizzato, ossia la tutela della salute del paziente stesso. La giurisprudenza di legittimità ha confermato questa impostazione, incentrata sul principio personalista, affermando che il trattamento sanitario coattivo in condizioni di degenza ospedaliera non è una misura di difesa sociale, ma deve essere necessariamente finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente stesso (Corte di cassazione, ordinanze n. 4000 del 2024 e n. 509 del 2023).
L’art. 32 Cost., pertanto, costituisce insieme causa e limite del trattamento sanitario coattivo, che non trova giustificazione se non nella cura della persona interessata. Esistono nell’ordinamento, del resto, altri istituti che presuppongono la pericolosità sociale della persona affetta da infermità mentale e che sono finalizzati anche alla protezione dell’incolumità e di diritti costituzionali di terzi, quali le misure di sicurezza, e, in particolare, l’assegnazione alle REMS. Questa Corte ha chiarito che i due istituti, trattamento sanitario coattivo e assegnazione alle REMS, hanno presupposti diversi, richiedendo soltanto la misura di sicurezza una manifestazione della pericolosità sociale nel compimento di fatti costituenti reato e una valutazione della pericolosità stessa anche in termini prognostici, a tutela della collettività. La «natura “ancipite”» della misura di sicurezza, la sua duplice «polarità», di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della pericolosità sociale (sentenza n. 22 del 2022), difettano nel trattamento sanitario coattivo in degenza ospedaliera, che resta, invece, ispirato al principio personalista e finalizzato essenzialmente alla cura della persona“.
La Corte Costituzionale, ricostruita la ratio dell’istituto del trattamento sanitario coattivo nel sistema delle garanzie costituzionali, procede all’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale, affermando la fondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 13,24,32 e 111 Cost.. Ed invero rileva che: “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore gode di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e nella fissazione di termini di decadenza, di prescrizione o di altre disposizioni condizionanti l’azione, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute (tra le più recenti, sentenze n. 39 e n. 36 del 2025, n. 189 e n. 96 del 2024, n. 67 del 2023, n. 143 e n. 13 del 2022), che si ravvisa, con riferimento specifico all’art. 24 Cost., ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire (tra le molte, sentenze n. 271 del 2019, n. 121 del 2016, n. 44 del 2016 e n. 335 del 2004). In particolare, si è più volte affermato che l’art. 24 Cost. non comporta che la persona debba conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, purché non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale (tra le tante, sentenze n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016). A fronte della discrezionalità del legislatore nel modulare le forme di tutela giurisdizionale, tuttavia, l’art. 35 della legge n. 833 del 1978 determina una significativa compressione del diritto di difesa e al contraddittorio, cioè dei contenuti minimi della tutela giurisdizionale. Tale compressione assume particolare rilievo perché attiene a provvedimenti amministrativi adottati in assenza del consenso dell’interessato, in violazione del principio di libertà di cura, e incidenti sulla sua libertà fisica, quindi sul nucleo primario della protezione costituzionale della libertà personale.
Si tratta di provvedimenti che hanno una finalità terapeutica, nell’interesse della salute della persona stessa, ai sensi dell’art. 32 Cost., per la cui adozione non vengono in rilievo esigenze costituzionali di ordine pubblico e sicurezza riconoscibili in capo alla collettività. Sicché proprio il soggetto nel cui interesse il provvedimento coattivo è adottato non è messo in condizione di conoscerlo ed è escluso dal relativo procedimento di convalida giurisdizionale. Il diritto di ricevere comunicazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale non è inficiato dalla condizione di alterazione psichica in cui versa la persona sottoposta a trattamento sanitario coattivo.
Innanzitutto, il trattamento sanitario coattivo può intervenire nei casi più diversi, da quello di persone affette da una persistente infermità psichica, eventualmente già interdette, inabilitate o assistite da amministratore di sostegno, a quello di persone che solo occasionalmente si trovino in una condizione di alterazione, non infrequentemente dovuta a condizioni sociali di marginalizzazione e di abbandono. La giurisprudenza di legittimità ha dato atto di queste variabili, affermando che «[n]onostante, dal punto di vista normativo, un paziente sia considerato, secondo una visione dicotomica, capace oppure incapace, la realtà clinica suggerisce che possano esistere degli spazi di autonomia e libertà decisionale residui anche in pazienti sottoposti a TSO», osservando come nella prassi debbano operare approcci multidimensionali, volti alla valutazione caso per caso, nel singolo paziente, della capacità a prestare il consenso (Corte di cassazione, ordinanza n. 509 del 2023). In secondo luogo, è certamente escluso che le persone, soltanto perché affette da infermità fisica o psichica, siano per ciò stesso private dei diritti costituzionali, compreso il diritto di agire e di difendersi in giudizio, in violazione del principio personalista e del principio della pari dignità sociale espressi dagli artt. 2 e 3, primo comma, Cost.
Il trattamento giuridico che l’ordinamento riserva alle persone affette da infermità fisica o psichica chiama in causa un complesso di princìpi «che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale» (sentenza n. 215 del 1987; nello stesso senso, sentenze n. 25 e n. 3 del 2025, n. 42 del 2024, n. 110 del 2022, n. 114 e n. 83 del 2019, n. 258 del 2017, n. 275 del 2016). Ai sensi dell’art. 3, secondo comma, Cost., infatti, è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli materiali che, per le persone affette da fragilità, si frappongono al godimento effettivo dei diritti costituzionali (sentenze n. 25, n. 3 e n. 1 del 2025, n. 258 del 2017). Anche in relazione ai diritti processuali, e in particolare alla capacità processuale della persona affetta da infermità psichica, questa Corte ha rilevato come l’ordinamento escluda, attraverso plurimi istituti, che la sola incapacità naturale, intesa come incapacità di intendere e di volere, momentanea o persistente, possa di per sé sola riverberarsi sulla capacità processuale. Sul piano sostanziale, il legislatore ha progressivamente ampliato le tutele dell’incapace naturale, esprimendo un favor verso forme di tutela preventiva che comportino la minore limitazione possibile della capacità di agire, quali l’istituto dell’amministrazione di sostegno che – a differenza dei tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione – plasma i rimedi della rappresentanza e dell’assistenza sulle effettive e concrete condizioni di vita dell’interessato, conservando al beneficiario la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno (sentenze n. 144 e n. 114 del 2019). Sul piano processuale, le norme sulla capacità di agire sono ispirate all’obiettivo di bilanciare la protezione dell’incapace con l’esigenza di non limitare a priori la sua capacità processuale, se non a seguito di adeguate verifiche sulle sue condizioni personali e tenuto conto del complesso degli interessi costituzionali implicati nel processo (in ambito civile, sentenza n. 168 del 2023; in ambito penale, sentenza n. 65 del 2023). Per ciò che qui rileva, la persona conserva la piena capacità processuale proprio nei procedimenti volti a verificare la sussistenza dei presupposti idonei a condurre a una limitazione della sua capacità di agire, come attestato dalle previsioni in tale direzione dettate per altri giudizi che coinvolgono persone con fragilità psichiche. In particolare, l’interdicendo, l’inabilitando e il potenziale beneficiario dell’amministrazione di sostegno, nei relativi procedimenti, possono stare in giudizio e compiere da soli tutti gli atti del procedimento, comprese le impugnazioni, anche quando siano stati nominati il tutore o il curatore provvisori, ai sensi dell’art. 419 cod. civ., o l’amministratore provvisorio, ex art. 405, quarto comma, del medesimo codice.
Di recente, il legislatore ha conservato le previsioni che erano dettate a riguardo per tali procedimenti dagli artt. 712 e seguenti cod. proc. civ., contestualmente abrogati, nel nuovo rito in materia di persone, minorenni e famiglie introdotto con decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata), mediante le disposizioni espresse dagli artt. 473-bis.55 e 473-bis.58 cod. proc. civ. Come già rilevato, il legislatore ha inteso così ribadire l’importanza di non spogliare della capacità processuale chi non sia stato ancora privato della capacità legale d’agire, tant’è che proprio nei procedimenti diretti ad accertare l’eventuale incapacità legale dell’interessato è stata confermata la sua piena capacità di stare in giudizio e di compiere qualsivoglia atto processuale (sentenza n. 168 del 2023).
La necessità che la persona interessata, affetta da momentanea alterazione o da persistente infermità psichica, partecipi al giudizio che la riguarda trova conferma nei precedenti di questa Corte, già menzionati e richiamati dalla stessa Corte rimettente, relativi ai procedimenti giurisdizionali per il ricovero definitivo e provvisorio previsti dalla legge n. 36 del 1904, all’epoca disposti rispettivamente dal tribunale in camera di consiglio e dal pretore. Di quelle disposizioni fu dichiarata l’illegittimità costituzionale per violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., in quanto all’interessato non era consentito di essere parte del procedimento, conoscere gli esiti dell’istruttoria e produrre nuove prove. Si osservò, in quelle occasioni, che «non è ammissibile che il ricovero definitivo sia ordinato sul fondamento di istruttorie che all’infermo non è consentito di seguire o di contestare. Vero è che l’interessato può non essere in grado di provvedere personalmente alla propria difesa; ma da ciò non può argomentarsi che il diritto ad essa non debba spettare a chi si trova invece in condizione di provvedervi non ostante la infermità» (sentenza n. 74 del 1968, ripresa dalla sentenza n. 223 del 1976).
Deve, pertanto, ritenersi che la comunicazione all’interessato del provvedimento del sindaco con il quale è disposto nei suoi confronti un trattamento sanitario coattivo e la notificazione del relativo decreto motivato del giudice tutelare non trovino ostacolo nella condizione di possibile incapacità naturale nella quale il destinatario si trovi al momento della comunicazione o della notificazione.
La condizione di alterazione psichica momentanea in cui versa la persona interessata, tuttavia, può essere di ostacolo alla effettiva comprensione del contenuto delle richiamate comunicazioni. Queste, dunque, benché necessarie, non sono sufficienti alla effettiva garanzia dei diritti costituzionali di difesa e al contraddittorio. Per l’effettività di tali diritti assume particolare rilievo l’audizione della persona interessata da parte del giudice tutelare prima della convalida. L’attuale formulazione dell’art. 35, secondo comma, della legge n. 833 del 1978 stabilisce che il giudice tutelare provvede con decreto motivato a convalidare o a non convalidare il trattamento «assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti». La disposizione prevede, dunque, un’istruttoria sommaria prodromica alla convalida. Gli accertamenti, tuttavia, sono prescritti soltanto come eventuali, per cui l’audizione dell’interessato è rimessa alla valutazione discrezionale dell’autorità giudiziaria. La dottrina segnala da tempo che il controllo svolto dal giudice tutelare in sede di convalida, nella prassi, è essenzialmente cartolare e per questo insufficiente per la reale conoscenza delle condizioni in cui è stato disposto il trattamento.
Nella stessa vicenda oggetto del giudizio a quo non vi è stata audizione prima della convalida. La Corte rimettente richiama, a questo proposito, il Report del 24 marzo 2023, adottato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti disumani e degradanti (CPT) del Consiglio d’Europa in seguito a una visita periodica svoltasi in Italia. Nel rapporto il Comitato, pur riconoscendo il progressivo impegno del Governo italiano, ha ribadito alcuni rilievi già espressi in precedenti occasioni: da un lato, il riscontro di episodi prolungati e non giustificati di contenzione meccanica; dall’altro, per ciò che qui rileva, il fatto che le procedure con cui sono disposti i trattamenti sanitari coattivi siano poste in essere in maniera standardizzata e ripetitiva e che il giudice incaricato della loro verifica non incontri mai la persona interessata; infine, che i pazienti continuino a non essere informati della loro condizione giuridica e della possibilità di presentare ricorso e che le informazioni loro rese siano incomplete o a volte del tutto mancanti. Il Comitato, pertanto, ha rivolto alcune raccomandazioni alle autorità italiane per ovviare a tali criticità. Anche la Corte EDU, benché in una pronuncia di irricevibilità per mancato esaurimento dei rimedi interni, ha sottolineato l’importanza dell’audizione diretta del paziente da parte del giudice tutelare, per valutare realmente e correttamente la situazione prima di decidere, rilevando altresì che la mancata comunicazione del provvedimento che dispone il trattamento e del decreto del giudice tutelare possa, in linea di principio, ridurre le garanzie procedurali dei soggetti interessati (Corte EDU, sezione seconda, decisione 8 ottobre 2013, Azenabor contro Italia).
L’audizione della persona sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio da parte del giudice tutelare prima della convalida del provvedimento sindacale assolve a diverse funzioni, in relazione a ciascuna delle quali essa appare necessaria. In primo luogo, l’audizione costituisce presidio giurisdizionale minimo, parte dello statuto costituzionale della libertà personale ai sensi degli artt. 13,24 e 111 Cost. Essa è necessaria per la verifica in concreto dei presupposti sostanziali che giustificano il trattamento ed è funzionale alla sua convalida, atteso che alla mancata convalida consegue la cessazione della restrizione della libertà personale. L’audizione, da questo punto di vista, risponde sia ai rilievi formulati dal richiamato Report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sia alle analoghe sollecitazioni espresse in più occasioni dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, volte all’adozione di maggiori cautele nell’applicazione dei trattamenti sanitari coattivi, affinché siano disposti in via residuale e nei soli casi effettivamente previsti dalla legge (da ultimo, Relazione al Parlamento 2023, sub sezione «Fragilità recluse», pagina 92). In secondo luogo, l’audizione da parte del giudice tutelare presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura – è certamente garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto dell’art. 13, quarto comma, Cost., che sancisce il divieto di violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà personale, e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana, ai sensi dell’art. 32, secondo comma, Cost. Infine, il diritto di essere sentiti assume particolare rilievo nei confronti delle persone fragili, come possono essere coloro che si trovano sottoposti a un trattamento sanitario coattivo per alterazione psichica, sia essa transitoria o permanente. Per questo profilo, l’audizione assume la valenza di strumento di primo contatto, che consente di conoscere le reali condizioni in cui versa la persona interessata, anche dal punto di vista dell’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale.
Con riferimento alle persone fragili, del resto, l’ordinamento contempla misure di protezione differenti, modulate sulle condizioni concrete del destinatario. Nella diversità dei presupposti, esse sono accomunate dalla centralità assegnata al diritto della persona di essere sentita prima dell’adozione di provvedimenti che la riguardano. L’audizione è prevista nei procedimenti di interdizione e di inabilitazione, per i quali l’art. 419, primo comma, cod. civ., stabilisce che «[n]on si può pronunziare l’interdizione o l’inabilitazione senza che si sia proceduto all’esame dell’interdicendo o dell’inabilitando». Nel procedimento per la nomina di amministratore di sostegno, l’art. 407, secondo comma, cod. civ. stabilisce che «[i]l giudice tutelare deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce recandosi, ove occorra, nel luogo in cui questa si trova e deve tener conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa». La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che questa disposizione sia diretta espressione dei diritti sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall’Assemblea generale il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18. L’audizione personale del beneficiario costituisce, infatti, adempimento essenziale della procedura, sia perché rispettoso della dignità della persona, sia perché funzionale allo scopo dell’istituto, per comprendere le concrete e attuali condizioni di menomazione fisica o psichica della persona e la loro incidenza sulla capacità di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali, consentendo di perimetrare i poteri gestori dell’amministratore alle effettive esigenze del beneficiario (Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanze n. 32219 del 2023 e 19 gennaio 2023, n. 1667).
Sul piano processuale, come già ricordato, in relazione alla capacità processuale dell’incapace naturale, l’esame dell’interdicendo e dell’inabilitando, già previsto negli artt. 714 e 715 cod. proc. civ., è ora ripreso nell’art. 473-bis.54 cod. proc. civ. e, per l’amministrazione di sostegno, nell’art. 473-bis.58 del medesimo codice. Anche nel procedimento di convalida del trattamento sanitario coattivo l’audizione della persona interessata assume importanza ai fini della possibile adozione di provvedimenti provvisori di protezione. L’art. 35, sesto comma, della legge n. 833 del 1978 prevede che «[q]ualora ne sussista la necessità il giudice tutelare adotta i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e per amministrare il patrimonio dell’infermo». La disposizione era già presente nel testo originario della legge Basaglia, ricalcando l’art. 361 cod. civ., in materia di tutela del minore, ma finalizzando i poteri ufficiosi a una visione patrimonialista. Già all’epoca, la dottrina vi aveva scorto una norma di chiusura, in quanto espressiva del ruolo del giudice tutelare nel sistema. Il legislatore, in questo modo, avrebbe inteso sancire la presa in carico, da parte della volontaria giurisdizione, di un nuovo soggetto, la persona affetta da infermità psichica, non interdetta e non inabilitata, affinché trovasse in questo ambito possibilità di tutela sostanziale e formale. Ma una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, alla luce degli artt. 2,3 e 32 Cost., conduce a intendere l’esercizio dei poteri ufficiosi come rivolto anche alla cura della persona. Già nella sentenza n. 74 del 1968, più volte richiamata, questa Corte rilevò che, nell’ambito del procedimento per il ricovero coattivo, avrebbero potuto essere adottati «provvedimenti di protezione, emessi di ufficio dal Tribunale avendo riguardo alle circostanze del caso». L’audizione della persona interessata prima della convalida del provvedimento che dispone il trattamento sanitario coattivo, pertanto, consente al giudice tutelare di individuare il percorso in cui instradare le forme di miglior ausilio della persona in relazione alla sua condizione soggettiva.
L’esercizio dei poteri ufficiosi da parte del giudice tutelare non può che avvenire nel rispetto del delicato equilibrio che intercorre tra esigenze protettive e autonomia individuale (sentenza n. 114 del 2019). Tali poteri possono consistere nell’adozione sia di misure informali, che di provvedimenti formali. Il giudice, ove sia il caso, potrà interloquire con i servizi sociali o investire il pubblico ministero per l’adozione degli atti di competenza tra i quali, in particolare, il promovimento della procedura di amministrazione di sostegno ai sensi degli artt. 406 e 417 cod. civ., nell’ambito della quale eventualmente, se ne ricorrono i presupposti, procedere alla nomina di amministratore di sostegno provvisorio ex art. 405 del medesimo codice. Non si oppongono, d’altra parte, né all’obbligo di comunicazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, né all’obbligo di audizione le ragioni dell’urgenza connesse alla convalida, che l’art. 35, secondo comma, della legge n. 833 del 1978, ripetendo lo schema dell’art. 13, terzo comma, Cost., richiede intervenga entro quarantotto ore dalla trasmissione del provvedimento sindacale. L’obbligo di comunicazione e l’obbligo di audizione, infatti, sono stati ritenuti necessari anche in relazione ad altre misure amministrative restrittive della libertà personale, quali l’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento dello straniero presso centri di permanenza per il rimpatrio, che richiedono le garanzie di cui all’art. 13 Cost. (tra le molte, sentenze n. 212 del 2023, n. 275 del 2017, n. 222 del 2004 e n. 105 del 2001). Pronunciandosi anche sull’omessa comunicazione del provvedimento e sull’omessa audizione del destinatario in seno alla convalida, questa Corte ha ritenuto che la disposizione all’epoca censurata, insieme alla libertà personale, violasse «il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo incomprimibile», poiché non prevedeva che questi dovesse essere ascoltato dal giudice, in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. (sentenza n. 222 del 2004). Pur riconoscendo la discrezionalità del legislatore nel configurare uno schema procedimentale caratterizzato da celerità, anche in considerazione delle esigenze di sicurezza e ordine pubblico nella regolazione dei flussi migratori, si affermò che «quale che sia lo schema prescelto, in esso devono realizzarsi i principî della tutela giurisdizionale; non può, quindi, essere eliminato l’effettivo controllo sul provvedimento de libertate, né può essere privato l’interessato di ogni garanzia difensiva» (sentenza n. 222 del 2004).
In conclusione, l’omessa previsione della comunicazione del provvedimento sindacale e della notificazione del decreto di convalida alla persona interessata o al suo legale rappresentante, ove esistente, nonché l’omessa previsione dell’audizione della stessa persona interessata prima della convalida, determinano la violazione degli artt. 13,24,32 e 111 Cost. L’art. 35 della legge n. 833 del 1978, pertanto, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo:
– nella parte in cui non prevede, al primo comma, dopo le parole «deve essere», le parole «comunicato alla persona interessata o al suo legale rappresentante, ove esistente, e»;
– nella parte in cui non prevede, al secondo comma, dopo le parole «assunte le informazioni», le parole «, sentita la persona interessata»;
– nella parte in cui non prevede, al secondo comma, dopo le parole «ne dà comunicazione al sindaco», le parole «e ne dispone la notificazione alla persona interessata o al suo legale rappresentante, ove esistente».
Atteso che la necessità di conoscere i provvedimenti restrittivi della libertà personale e le loro ragioni giustificative sussiste anche in caso di proroga del trattamento sanitario coattivo inizialmente disposto, deve essere dichiarata in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 35 della legge n. 833 del 1978 nella parte in cui non prevede, al quarto comma, dopo le parole «ne dà comunicazione», le parole «alla persona interessata o al suo legale rappresentante, ove esistente, e».
La Corte infine precisa che: “resta ferma, per il legislatore, la possibilità di intervenire in qualsiasi momento al fine di individuare, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità che gli spetta, una eventuale diversa configurazione del trattamento sanitario coattivo, purché rispettosa dello statuto costituzionale della libertà personale e dei diritti costituzionali di difesa e al contraddittorio, come pure l’adozione di ogni altra e diversa misura di protezione sostanziale o procedimentale della persona che vi sia sottoposta, quale in particolare la possibilità di prevedere la nomina di un curatore speciale al momento della convalida del trattamento“.