Con la sentenza del 27 giugno 2025 n.16328, la Corte di Cassazione nell’accoglire il motivo di impugnazione formulato nei confronti della decisione Corte di Appello di Firenze, si concentra sulle ricadute risarcitorie della perdita integrale di un senso (la vista) affermando il carattere ineludibile della conseguente personalizzazione, con motivazione che si discosta dalla consueta motovazione circa la necessità di circostante non ordinarie e quindi del tutto peculiari.
Il ricorrente lamentava infatti l’errata decurtazione, da parte dell’indicata Corte d’Appello , del danno riconosciuto con la sentenza emessa dal primo giudice, avendo la corte territoriale ridotto la somma liquidata dal Tribunale di Siena in favore della ricorrente a titolo di risarcimento del danno (nella misura del 28%) ritenendo che l’errore medico dovesse essere circoscritto alla sola gravissima lesione dei nervi dell’occhio sinistro e che la cecità totale della vittima non dovesse integralmente ricondursi alla malpratice medica.
La Corte di Cassazione ritiene fondato il motivo, rilevando preliminarmente che: “la corte territoriale, dopo aver ribadito l’integrale responsabilità del Pa.Lu. nella causazione del danno all’occhio sinistro della paziente, ha rilevato come la perdita totale della vista da parte della Gu.Ge. non potesse ricondursi integralmente alla malpratice medica, poiché “la pratica chirurgica sull’occhio destro, direttamente interessato dalla forma tumorale, fu eseguita nel rispetto delle “linee guida’ e che l’ipotesi di un fallimento e dunque della cecità anche di tale organo era chiaramente contemplata dalla prassi medica e dalle linee guida”, con la conseguenza che “la totale perdita della capacità visiva della danneggiata non può ascriversi integralmente all’operato dei sanitari dell’azienda appellante, ma trova parte delle sue cause nell’ipotesi di complicanza in ragione della delicatezza dell’operazione chirurgica” (cfr. pag. 13 della sentenza d’appello); ciò posto, nel procedere alla determinazione del danno concretamente subito dalla paziente, il giudice a quo ha rilevato come lo stesso andasse riformulato (rispetto a quanto stabilito dal giudice di primo grado) “in termini di “danno iatrogeno differenziale”, dovendo effettuarsi la relativa quantificazione “detraendo, dal dovuto per il grado di invalidità totale riportata (90%), quanto sarebbe stato comunque accertato per il danno subito per la perdita dell’occhio destro, pari al 28% di I.P., secondo quanto allegato dall’azienda convenuta e mai espressamente contestato dagli appellati”; e tanto, sul presupposto per cui “il medico al quale sia imputabile l’aggravamento della patologia risponde dell’intera lesione, anche di quella originaria, che costituisce l’antecedente logico necessario sul quale si inserisce la condotta colpevole del sanitario”, con l’accortezza, tuttavia, di tener conto “degli effetti che si sarebbero comunque verificati in ragione della patologia originaria, rispetto ai quali la condotta del medico non ebbe alcuna incidenza” (cfr. pag. 13 della sentenza d’appello); nel provvedere alla determinazione del danno così definito sul piano concettuale, la corte territoriale ha quindi identificando il danno in una misura “pari alla differenza tra l’invalidità residuata al paziente per effetto della malpratica e quella che gli sarebbe comunque residuata a causa della lesione, se il trattamento fosse stato corretto” (cfr. pag. 14 della sentenza d’appello); ciò posto, in applicazione dei principi di cui alle decisioni della Corte di cassazione n. 6341/2014 e n. 26117/2021, ha ritenuto che il “danno c.d. iatrogeno (e cioè l’aggravamento, per imperizia del medico, di postumi che comunque sarebbero residuati, ma in minor misura)” andasse “liquidato monetizzando il grado complessivo di invalidità permanente accertato in corpore; monetizzando il grado verosimile di invalidità permanente che sarebbe comunque residuato all’infortunio anche in assenza dell’errore medico; detraendo il secondo importo dal primo”, pervenendo alla quantificazione del danno nella misura “pari alla differenza tra Euro 808.138,00 (I.P. al 90%) ed Euro 120.737,00, (I.P. al 28%), e così in totale Euro 687.401,00, oltre gli interessi sulla somma devalutata al dì del sinistro e poi rivalutata anno per anno sino al dì di pubblicazione della presente sentenza e ancora dei soli interessi da tale ultima data sino al definitivo soddisfo”; quanto alla personalizzazione di tale danno differenziale, la corte territoriale ha ritenuto che la paziente non avesse fornito alcuna prova del ricorso di specifiche circostanze peculiari al caso concreto, suscettibili di giustificare il superamento delle ordinarie conseguenze già compensate dalla liquidazione forfettizzata tabellarmente, finendo così col confermare, anche sotto questo ulteriore profilo, l’effettiva identificazione concettuale del danno liquidato in favore della Gu.Ge. come “danno differenziale” sic et simpliciter“.
Il Collegio ritiene che l’errore nella specie imputabile al ragionamento seguito dalla corte territoriale sia propriamente consistito: “nel non aver colto lo scostamento qualitativo che, sul piano concettuale, separa la considerazione di un mero danno differenziale dalla provocazione di conseguenze che, da quel “dato differenziale quantitativo”, largamente si distaccano, ponendosi alla base di un’autentica trasfigurazione del concreto pregiudizio considerato; come correttamente stabilito nella decisione del primo giudice (i cui passaggi risultano riprodotti in ricorso), in questo caso “non si è prodotto un aggravamento anatomo-funzionale da danno aggiunto (maggior danno)” essendosi bensì “determinata la perdita totale della funzione visiva”, con la conseguenza che “non si è verificato una riduzione parziale di una funzione bensì l’abolizione della stessa, che ha drasticamente cambiato la qualità di vita della lesa” (cfr. 5-6 della sentenza di primo grado); l’errore in cui deve ritenersi incorso il giudice d’appello deve dunque rinvenirsi nell’aver totalmente trascurato la necessità di distinguere, sul piano ontologico, il mero aggravamento di una malattia che colpisce un organo di senso (indebolendone o attenuandone l’efficacia), dalla manifestazione di quel fenomeno, nuovo e diverso, costituito dalla perdita totale del senso (o della funzione) corrispondente; con la conseguenza che l’eventuale liquidazione di tale ultimo danno limitata alla registrazione di una mera differenza quantitativa (corrispondente alla misurazione di una minorata efficacia funzionale) non potrà che rivelarsi del tutto incapace di cogliere il significato del rilevantissimo scostamento qualitativo che separa, con nettezza, la mera attenuazione di una funzione dalla sua completa e definitiva abolizione; si tratta, in breve, di conferire rilievo al tenore qualitativamente e significativamente difforme delle conseguenze dannose (e del tessuto delle incomparabili sofferenze morali e dinamico-relazionali che ne derivano) connesse alla produzione di forme lesive destinate a riflettersi in modo largamente diverso, tanto sugli equilibri emotivo-affettivi del soggetto, quanto sulla trama relazionale che ne sostanzia l’esperienza di vita; ciò posto, dovendo peraltro ritenersi come la perdita definitiva e totale della vista, da parte della Gu.Ge., non poté in ogni caso ricondursi integralmente alla malpractice del Pa.Lu. (occorrendo pur sempre tener conto dell’imputabilità del danno prodottosi a carico dell’occhio destro a una normale complicanza della patologia di base), la modalità di liquidazione del danno nella specie lamentato dalla paziente, mentre potrà ritenersi correttamente impostata attraverso la preliminare identificazione del danno differenziale, dovrà di seguito necessariamente estendersi alla sua inevitabile personalizzazione (nella specie negata dalla Corte d’Appello in ragione della supposta mancata dimostrazione del ricorso di circostanze specializzanti), la cui opportuna modulazione varrà a rispondere, in termini monetari, all’esigenza di un’equa considerazione della perdita del senso (o della funzione) come fatto suscettibile di trasfigurare qualitativamente, in una nuova realtà, la diversa entità del mero danno differenziale;