Res incendiata e responsabilità da custodia

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La Corte di Cassazione (sentenza del 2 luglio 2025 n. 17980 – dott. Giaime Stefano GUIZZI) compie un esaustivo ed organico excursus storico in ordine alla res incendiata in rapporto alla responsabilità del custode della stessa e della possibilità di liberarsene mediante la prova del caso fortuito. Sulla base delle risultanze, il giudice di prime cure accoglieva la domanda risarcitoria nei confronti del proprietario di un autoveicolo parcheggiato, essendo emerso, con certezza, che l’incendio vi fu e che la vettura avesse avuto specifica rilevanza causale nella sua propagazione. Difatti, il c.d. “triangolo di fuoco” coincideva col luogo in cui era parcheggiato il veicolo, del quale era pure emersa la valenza eziologica indispensabile rispetto alla diffusione delle fiamme, stante anche l’assenza di altri materiali con caratteristiche analoghe per infiammabilità. L’ausiliario del Giudice aveva accertato che sicuramente l’incendio aveva avuto origine all’interno del box ove era ricoverata l’autovettura, affermando la paritaria probabilità che esso fosse stato causato da un cortocircuito dell’impianto elettrico della stessa, ovvero da un fenomeno elettrico dell’impianto del box, oppure da un atto doloso. A fronte di ci la Corte di Appello riformava la precedente sentenza, sul rilievo dell’assenza di prova della causa materiale dell’origine dell’incendio (avendo il consulente tecnico d’ufficio indicato tre ipotesi, paritetiche in termini di probabilità), donde la carenza di dimostrazione del collegamento causale della vettura con l’incendio, posto che la prova dell’innesco dello stesso gravava sul danneggiato, sicché, in assenza della stessa, il custode non doveva fornire la prova del fortuito. La Corte di Cassazione ritiene ingiustificata tale ultima decisione.

Ed invero afferma che: “È noto che la responsabilità per danno da cose in custodia ebbe a trovare, nell’ordinamento giuridico nazionale, una prima regolamentazione nel codice civile del 1865, all’art. 1153, comma 1, norma che rendeva ciascuno “obbligato non solo pel danno che cagiona per fatto proprio, ma anche per quello che viene arrecato col fatto delle persone delle quali deve rispondere, o colle cose che ha in custodia”. La fattispecie presentava, quindi, i tratti caratteristici della c.d. “responsabilità indiretta”, basandosi su una presunzione “iuris tantum” in capo al custode, vincibile solo con la prova del fortuito. Il modello era quello del Code Napoléon, il cui art. 1384, quantunque “i lavori preparatori alla prima grande codificazione europea” – come si è osservato in dottrina – sembrassero “attribuire rilievo più che ad una categoria di danno da cose, suscettibile di una applicazione generale ed astratta, a singole ipotesi di responsabilità, nelle quali era comunque possibile ricondurre il danno al fatto della persona”, secondo uno schema affine a quello degli artt. 1385 e 1386, “dedicati rispettivamente alla responsabilità del proprietario per il fatto dell’animale e per la rovina degli edifici”. Tuttavia, la dottrina e la giurisprudenza francesi più attente ben presto colsero la “potenzialità” della norma suddetta – fino a quel momento, come detto, ritenuta “sintetizzare una pluralità di previsioni specifiche”, piuttosto che delineare “una categoria generale ed astratta di danno da cose” – tanto che essa, per riprendere un’osservazione dottrinaria, “conobbe una rapida evoluzione ed una applicazione estensiva al punto da ricomprendere anche i danni da incendio propagatosi da edificio a edificio, mettendo in allarme le compagnie assicurative, che si fecero promotrici di una legge di riforma (l. 7.11.1922) dell’art. 1384, comma 1, cod. Nap., volta a limitarne la portata normativa”. Tornando, invece, all’esperienza italiana, la disciplina del danno da cose in custodia transitava, nella codificazione varata nel 1942, nell’art. 2051, il quale, innovando rispetto al passato, ha richiesto – per dirla, nuovamente, con la già citata dottrina – che “il danno sia cagionato dalla cosa (e non, come era in principio, dal custode per il tramite della cosa), ossia che tra la res e l’eventus damni sussista una relazione diretta; ed ammette che il custode possa liberarsi da responsabilità offrendo la prova del fortuito.

Orbene, con specifico riferimento all’incendio, “il nostro codificatore, diversamente dall’omologo transalpino, ha ritenuto applicabile” – si è sempre osservato in dottrina – “la disciplina in esame, con la conseguenza che qualora dalla cosa in custodia si sprigionino fiamme il custode sarà chiamato a rispondere, a meno che non fornisca la prova del fortuito”, con la precisazione “che il fatto del terzo, o dello stesso danneggiato, che abbia appiccato il fuoco, varrà quale prova liberatoria ogniqualvolta il custode non si trovasse nella condizioni di impedire, con una condotta normalmente diligente e con l’impiego di mezzi ordinari, l’evento”.

Tale ordine di idee ha ricevuto eco, e non da ora, anche nella giurisprudenza di questa Corte, avendo essa affermato – pur nell’incertezza che, per molto tempo, l’ha contraddistinta, quanto alla ricostruzione della natura (“oggettiva” o per “colpa presunta”) della responsabilità ex art. 2051 cod. civ., tema sul quale si tornerà più avanti – che la prova a carico del custode, per liberarsi dalla responsabilità, “può dirsi raggiunta se sia positivamente accertato il caso fortuito, comprensivo, nella sua più lata accezione, anche della colpa del danneggiato o del fatto di un terzo”, precisando pure che in “caso di incendio non basta che questo possa essere attribuito ad una o ad altra delle varie cause fortuite prospettate in via d’ipotesi per poterne dedurre che sia stato osservato il dovere di custodia inteso come diligente esercizio del potere di controllo sulla cosa” (così già Cass. Sez. 3, sent. 24 luglio 1963, n. 2055, Rv. 263163-01). Quanto appena osservato, tuttavia, già solleva un primo interrogativo, sul quale si tornerà diffusamente più avanti e che ha comportato la necessità di un approfondimento, in funzione nomofilattica, della questione oggetto del presente ricorso. Ovvero, se il particolare “rigore” – o meglio “l’aggravamento della prova liberatoria” a carico del custode della “res” incendiatasi (per dirla con la dottrina già più volte richiamata) – nel valutare l’esistenza del fortuito, non sia (o meglio, non fosse), per così dire, “consustanziale” a quel “diligente esercizio del potere di controllo sulla cosa”, nel quale si ravvisava il contenuto di quel “dovere di custodia”, posto a fondamento della configurazione della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. secondo il modello della “colpa presunta.

Si tornerà, come detto, sul tema, dovendosi qui, invece, evidenziare il consolidarsi dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, “in caso di incendio”, perché il custode della cosa andata a fuoco possa esonerarsi da responsabilità, “non basta che questo possa essere attribuito ad una o ad altra delle varie cause fortuite prospettate in via d’ipotesi” non attribuibili direttamente alla cosa custodita, gravando su costui, “ai fini della prova liberatoria, l’onere di indicare e provare il fortuito” (comprensivo, “nella sua più lata accezione, anche della colpa del danneggiato o del fatto di un terzo”), rimanendo, quindi, “a suo carico la causa ignota“: così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 25 novembre 1988, n. 6340, Rv. 460680-01. Nello stesso solco si colloca pure quell’arresto che esprime il principio secondo cui il custode, per liberarsi dalla responsabilità (allora, ancora ricostruita in termini di colpa presunta) “deve provare non solo la possibilità, ma l’esistenza del caso fortuito, comprensivo del fatto del terzo”, principio enunciato con riferimento ad un caso in cui “il giudice di merito, sia dal rapporto dei Carabinieri, sia dai testi escussi, non aveva ritenuto raggiunta la prova dell’incendio doloso da parte di ignoti” (si tratta di Cass. Sez. 3, sent. 25 settembre 1997, n. 9404, Rv. 508224-01).

Un ulteriore “snodo” nella giurisprudenza in materia è costituto da quella pronuncia – forse la maggiormente rilevante, nella prospettiva dell’accoglimento dei primi due motivi del ricorso qui in esame – che ebbe ad affrontare il caso di una domanda risarcitoria, ex art. 2051 cod. civ., proposta nei confronti del custode non solo del fondo dal quale l’incendio aveva avuto origine, ma anche di quello attraverso il quale le fiamme si erano semplicemente propagate. Orbene, questa Corte, confermando la correttezza della decisione di accogliere la domanda pure nei confronti di tale soggetto, sottolineò come il giudice di merito – quanto alla posizione di costui – dovesse solo accertare, in fatto, se i danni si fossero prodotti “in conseguenza dell’insorgere (nel suo fondo) di un processo dannoso anche se provocato da elementi esterni”, a tal fine risultando sufficiente constatare che quel terreno “si trovava in una situazione obiettivamente idonea a produrre danni”, ragion per cui, “anche se l’incendio si era sviluppato in altro fondo, la sua situazione obbiettiva era tale” da determinare “un processo dannoso che alimentando con accentuato dinamismo la propagazione dell’incendio, contribuì concausalmente alla produzione del danno” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 18 giugno 1999, n. 6121, Rv. 527663-01). Si tratta di principio – questo secondo cui la “res” incendiata, per essere ritenuta causa di danno, idonea a determinare l’applicazione dell’art. 2051 cod. civ., non deve essere necessariamente all’origine dell’incendio, ma anche solo “contribuire concausalmente” alla sua diffusione (in sostanza, semplicemente propagando l’incendio sia pure altrove innescato) e, quindi, all’eventus damni – che è stato ribadito, in modo convinto, dalla giurisprudenza successiva (cfr., soprattutto in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 9 agosto 2007, n. 17471, Rv. 598952-01), sino al punto da stigmatizzare, ritenendolo “non pertinente”, il percorso argomentativo del giudice di merito che, in casi similari di propagazione delle fiamme, “concentra la sua indagine intorno al punto in cui s’era originato l’incendio” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 7 febbraio 2011, n. 2962, Rv. 617265-01), fermo peraltro restando che, come di recente opportunamente precisato da questa Corte, ciò che non equivale affatto a ritenere che il custode del bene “in cui effettivamente l’incendio sia originato e poi attecchito debba andare esente da responsabilità” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 11 gennaio 2024, n. 1262, Rv. 669793-01), responsabilità eventualmente destinata a concorrere con quella del custode della “res” la quale abbia contribuito alla propagazione del fuoco.

Orbene, alla luce di quanto precede, si può trarre una prima conclusione, ovvero che in caso di danni da cosa in custodia incendiatasi – secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte – non occorre la dimostrazione che le fiamme abbiano avuto in tale “res” il loro innesco, essendo sufficiente che essa abbia “contribuito concausalmente” alla loro diffusione, ferma restando la possibilità di fornire la prova liberatoria del “caso fortuito” (che può essere costituita, oltre che da un fattore esterno che interviene sulla partecipazione della cosa all’evento, assorbendone interamente la causalità, anche dalla condotta di un terzo o dello stesso danneggiato), con la duplice precisazione che la sua allegazione non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto (Cass. Sez. 3, sent. 23 giugno 2016, n. 13005, Rv. 640385-01) e che la causa ignota dello sviluppo dell’incendio resta a carico del custode (cfr., oltre alla giurisprudenza già citata, e in particolare Cass. Sez. 3, sent. n. 9404 del 1997, cit., anche Cass. Sez. 3, sent. 12 novembre 2009, n. 23945, Rv. 610052-01). In questo senso, dunque, può dirsi – come osservato in dottrina – che il caso fortuito si pone come “margine estremo della responsabilità del custode”, nel senso che essa termina “dove inizia il caso fortuito”.

Ciò premesso, tuttavia, occorre chiedersi (come sopra anticipato) se questi indirizzi giurisprudenziali – formatisi allorché il fondamento della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. era individuato nella “presunzione di colpa” del custode, a vincere la quale, non di rado, era ritenuta idonea la dimostrazione di aver adempiuto (o di non averlo potuto fare per la repentinità dell’insorgere della situazione di pericolo) al dovere di “diligente esercizio del potere di controllo sulla cosa” – possano conciliarsi con il riconoscimento della natura oggettiva di tale responsabilità (sulla quale cfr., per tutte, Cass. Sez. Un., sent. 30 giugno 2022, n. 20943, Rv. 665084-01), ovvero con il suo basarsi solo sul nesso causale tra “res” e danno. E ciò specie nella prospettiva, alla quale questa Corte mostra di accedere anche in relazione alla fattispecie di cui all’art. 2051 cod. civ., dell’accertamento dell’eziologia tra cosa custodita ed evento dannoso secondo il criterio del “più probabile che non”. Invero, il ricorso a tale criterio di accertamento anche in relazione alla presente fattispecie – già “in nuce” in Cass. Sez. 3, sent. 13 novembre 2015, n. 23201, Rv. 637750-01 (si veda, in particolare, il Par. 4.) – è stato, da ultimo, compiutamente sviluppato da questa Corte.

Essa, infatti, ha ribadito – pure nell’ambito della responsabilità da cose in custodia – la “nota la giurisprudenza” sulla prova del nesso di causalità “e dunque sulla regola secondo cui il nesso di causa è provato quando la tesi a favore (del fatto che un evento sia causa di un altro) è più probabile di quella contraria (che quell’evento non sia causa dell’altro): il che si esprime con la formula del “più probabile che no”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 26 aprile 2023, n. 10978, non massimata). Invero, si è affermato che nell’ipotesi “di concorso di cause”, ovvero “nel caso in cui si tratta di verificare se la cosa ha contribuito causalmente all’evento insieme ad altre concause, quel principio di diritto è specificato nel modo seguente: “qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della ‘probabilità prevalente’ e del ‘più probabile che non’; pertanto, il giudice di merito è tenuto, dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’impredicabilità di un’aritmetica dei valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente”” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 10978 del 2023, cit., che richiama Cass. Sez. 3, sent. n. 25886 del 2 settembre 2022, Rv. 665403-01).

Orbene, alla luce di tali affermazioni, si pone il dubbio – che ha condotto la Procura Generale presso questa Corte a concludere per il rigetto del presente ricorso – se possa ancora affermarsi la “non pertinenza” della verifica dell’origine dell’incendio ai fini della ricostruzione del nesso di causa tra “res” ed “eventus damni”, così “relegandone” la rilevanza solo sul piano della dimostrazione del “caso fortuito”. E ciò almeno in presenza di una fattispecie, come quella qui in esame, in relazione alla quale siano state formulate ipotesi alternative – rispetto a quella che ipotizza che la “res” custodita ebbe a prendere autonomamente fuoco – secondo cui essa sarebbe stata, invece, attinta o da fiamme sprigionatosi dall’impianto elettrico presente nel garage o addirittura appiccate dolosamente (ciò che, in ambo i casi, renderebbe il Ga.Ro.ha evidenziato il suo legale nel corso della discussione innanzi a questa Corte – il primo soggetto danneggiato e non il responsabile del sinistro). In altri termini, ciò che occorre vagliare è se – nel contesto di una ricostruzione della fattispecie legale di cui all’art. 2051 cod. civ. come configurante una responsabilità oggettiva, fondata sul solo nesso causale, da accertarsi secondo il criterio del “più probabile che non” – la “continuità”, da parte di questa Corte, negli indirizzi sopra illustrati non finisca per comportare l’adozione di un criterio addirittura stocastico di imputazione della responsabilità, nel quale il bene in custodia da “causa” del danno degrada a mera “occasione” dello stesso.

Si tratta, tuttavia, di argomenti che, per quanto non privi di elementi di suggestione, non sono tali da comportare il superamento dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’art. 2051 cod. civ., è sufficiente accertare che il bene in custodia, nel prendere fuoco, abbia anche solo concausalmente contributo alla produzione dell’evento dannoso, rilevando, semmai, l’individuazione del punto d’innesco dell’incendio ai fini della dimostrazione del caso fortuito, sicché, ove esso rimanga ignoto, è il custode del bene – incendiato e propagatore dell’incendio – a sopportarne le conseguenze, non potendo esonerarsi da responsabilità. Reputa, infatti, questo Collegio che la riconosciuta natura “oggettiva” della responsabilità da cose in custodia valga, vieppiù, a confermare l’orientamento tradizionale, considerato che il dato caratterizzante la fattispecie legale di cui all’art. 2051 cod. civ. è il fatto che il nesso causale va ricostruito con riferimento non alla “condotta” del custode, ma direttamente alla “res” custodita. Invero, la fattispecie in esame – come è stato, ancora di recente, ribadito – “prescinde da ogni connotato di colpa, sia pure presunta, talché è sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore della derivazione del danno dalla cosa, nonché del rapporto di fatto custodiale tra la cosa medesima e il soggetto individuato come responsabile”, essendosi, inoltre, rimarcato che tale “caratterizzazione oggettiva della nozione di “caso fortuito”, diversa da quella tradizionale che lo identificava con l’assenza di colpa (casus=non culpa), trova fondamento nell’orientamento, consolidatosi già da diversi anni nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. Sez. 3, ord. 1° febbraio 2018, nn. 2480, 2481, 2482 e 2483), nonché suggellato dal suo massimo consesso (Cass. Sez. Un., sent. 30 giugno 2022, n. 20943, Rv. 665084-01)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 7 settembre 2023, n. 26142, Rv. 669110-01, relativa, peraltro, proprio ad un caso di danni da incendio).

Unico limite alla responsabilità è, dunque, il caso fortuito, dovendo in questa sede ribadirsi quanto da questa Corte affermato già in una pronuncia resa, nella sua massima sede nomofilattica, ormai più di tre lustri orsono, ovvero che ogni “rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito”, così rimarcando che la “responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti”; ma se “nella responsabilità per colpa quest’ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest’ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008, n. 581, in particolare al Par. 8.8). E ciò perché “nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta” – e tale è, appunto, il caso della fattispecie, tra le altre, di cui all’art. 2051 cod. civ. – “bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità”; donde allora la necessità di una norma che, “di volta in volta”, risolva tale questione “mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione”, il quale “in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno” (così, nuovamente, Cass. Sez. Un., sent. n. 581 del 2008, cit., sempre al Par. 8.8).

In una simile prospettiva, quindi, l’accertamento del punto di innesco dell’incendio come estraneo alla cosa custodita rileva, non già ai fini della ricostruzione del nesso tra “res” ed “eventus damni”, bensì per l’individuazione, appunto, di una “catena causale di riferimento”, alternativa rispetto a quella incentrata sul bene in custodia (e sul potere di fatto esercitato su di esso), idonea ad escludere che quel “rapporto causale concepito allo stato puro” – caratteristico delle fattispecie di responsabilità oggettiva – tenda “all’infinito”. Ciò, tuttavia, presuppone che tale punto di innesco venga positivamente accertato, essendo, pertanto, irrilevante nel caso di specie – a differenza di quanto osservato dal Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, in particolare a pag. 6 – che vi siano state, nella valutazione del consulente tecnico d’ufficio (recepita dalla sentenza impugnata), “altre ipotesi “alternative””, rispetto a quella secondo cui le fiamme originarono dalla stessa auto del Ga.Ro. , “accreditate allo stesso modo”. Invero, solo ove fosse emerso che l’incendio ebbe natura dolosa, appiccato all’interno di un locale che è non di proprietà del Ga.Ro. o non nella sua disponibilità, oppure che a causarlo sia stato un difetto dell’impianto elettrico di tale locale, si sarebbe potuta ritenere integrata la prova del fortuito, l’assenza della quale grava sul custode del bene – la vettura – che svolse, con certezza, il ruolo (almeno) di propagazione delle fiamme.

La circostanza, infatti, che quelle prospettate siano rimaste, appunto, mere “ipotesi”, e che non sia stato “possibile risalire alle cause dell’incendio né (…) stabilire se lo stesso abbia interessato prima la vettura o prima il materiale presente nel box” (come si legge anche nella pronuncia della Corte genovese), vale, infatti, a delineare una situazione di incertezza che, attenendo alla prova del fortuito, resta a carico del custode, impossibilitato a esonerarsi da responsabilità, e non del soggetto danneggiato (o, come nella specie, di chi si sia surrogato nei diritti risarcitori di quest’ultimo). Pertanto, ridonda a carico del custode di un bene, incendiato o incendiatosi, la carenza di affidabile prova sulla causa ultima del sinistro e della qualificabilità di questa stessa quale caso fortuito, secondo la rigorosa accezione sopra ricostruita: sicché, in tale carenza, non viene meno la sua responsabilità per i danni che dal bene da lui custodito, quand’anche abbia rivestito solo il ruolo di mero propagatore, siano derivati a terzi“.

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Avvocato Massimo Palisi - Padova

Nato a Catanzaro in data 24 aprile 1969, consegue la maturità classica (voto 60/60) e la laurea in giurisprudenza presso l’Università di Padova (voto 105/110). Viene eletto per il biennio 1992/94 Segretario Nazionale della Fuci (Federazione Universitaria Cattolici Italiani).

Avvocato dal 1999, Cassazionista dal 2016, svolge la propria attività a livello nazionale, operando nell’ambito del diritto sostanziale e processuale civile, con particolare elezione per le tematiche relative alla responsabilità civile (sia in ambito contrattuale che extracontrattuale), alla tutela della persona e dei consumatori in generale (e sotto il profilo risarcitorio in particolare), al diritto del lavoro, al diritto delle assicurazione. Svolge inoltre assistenza a favore delle vittime nell’ambito delle procedure penali.

Ha deciso di non essere fiduciario di alcuna compagnia di assicurazione e/o banche, per non intaccare la propria opera di tutela nei confronti dei danneggiati e dei consumatori.

Ha collaborato, nel primo decennio del 2000, con Cittadinanzattiva Onlus, risultando membro: a) del gruppo studio “Assicurazioni ” del CNCU, istituito presso il Ministero delle Attività Produttive; b) del collegio del Nord Italia dei conciliatori istituito presso il gruppo Banca Intesa, c) del gruppo di studio istituito presso l’ANIA per l’emanazione del nuovo Codice delle Assicurazioni. Ha svolto corsi seminariali in tema assicurativo a livello nazionale, promossi e patrocinati dal Ministero delle Attività Produttive.

È stato relatore in diversi convegni giuridici di carattere nazionale.

Avvocato Evenlina Piraino - Padova

Nata a Cosenza in data 29 settembre 1981, consegue il diploma di maturità al liceo scientifico (voto 100/100) e si laurea nel 2006, presso l’Università di Cosenza (UNICAL), in giurisprudenza (voto 108/110) discutendo una tesi nell’ambito del diritto del lavoro (“Il nuovo sistema di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali: Decreto Legislativo n. 38/2000′) e del diritto assicurativo (“Il sistema assicurativo sociale in ambito europeo”).

È avvocato dal 2009; fa parte dello studio dal 2013. Si occupa prevalentemente di diritto civile, sostanziale e processuale, diritto del lavoro, diritto di famiglia, procedure stragiudiziali e di mediazione. Nell’ambito della materia di elezione dello studio legale, si interessa in particolare degli istituti di responsabilità civile speciale, di quello di natura professionale, oltre alla tutela degli animali e dell’ambiente, a vantaggio del quale svolge anche attività di volontariato sociale.

È attiva nell’ambito del diritto di famiglia e della tutela dei minori, nonché della tutela dei diritti della persona in generale, dei consumatori e della proprietà intellettuale.

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