La Corte di Cassazione prescriveva alla Corte di Appello di rinvio di liquidare il danno da perdita della capacità di lavoro della vittima accertando, in facto o in via presuntiva, la misura del reddito perduto (o che sarebbe stato perduto in futuro) dalla vittima, senza ricorrere a criteri percentualistici ed alla astratta nozione di “incapacità lavorativa specifica“, medicolegalmente e giuridicamente scorretti (“deve escludersi in radice la plausibilità logica di un tale criterio di quantificazione della capacità lavorativa perduta“). La Corte d’Appello, incurante di tali indicazioni, quantificava il danno in esame ricorrendo ad una astratta quantificazione percentuale. Impugnata avanti alla Corte di Cassazione tale decisione, il Collegio (sentenza del 5 agosto 2025 n.22584 – dott. Marco Rossetti) censura la stessa, ribadendo che: “la pretesa di liquidare il danno da lucro cessante moltiplicando il reddito della vittima per una percentuale di “incapacità lavorativa specifica”, immancabilmente rimessa al giudizio (se non, per quanto si dirà, addirittura all’arbitrio) del medico legale, è operazione giuridicamente, concettualmente e medicolegalmente erronea per quattro ragioni.
Il suddetto criterio liquidativo in primo luogo è erroneo perché al consulente tecnico medico-legale può chiedersi di indicare i postumi permanenti, precisando se essi impediscano in tutto od in parte la prestazione lavorativa; se la rendano più difficoltosa e sotto quale aspetto (forza, resistenza, concentrazione, perizia manuale). Non è invece consentito demandare al medico legale un giudizio di tipo giuridico sull’esistenza del danno patrimoniale da lucro cessante, in quanto si tratterebbe d’una valutazione riservata al giudice e che travalica lo specifico settore di competenza del medico legale. E però, nella sostanza, il criterio di liquidazione del danno patrimoniale consistente nel moltiplicare il reddito antesinistro per la percentuale di “incapacità lavorativa specifica”, e capitalizzare il risultato (c.d. criterio di liquidazione “in abstracto”) ha per effetto proprio lo spostamento del centro decisionale dal giudice al medico legale. Il danno patrimoniale infatti attraverso l’adozione di questo criterio finisce per essere liquidato senza alcun accertamento in concreto sulle variazioni del reddito della vittima prima e dopo il sinistro, ma semplicemente capitalizzando (non il reddito perduto, ma) una percentuale di reddito corrispondente alla percentuale di “incapacità lavorativa specifica”, percentuale che per quanto si dirà altro non è se non una cabala, a causa della sua ascientificità e del cieco empirismo con cui, di conseguenza, viene determinata.
Il criterio di liquidazione basato sulla percentuale di “incapacità lavorativa specifica”, in secondo luogo, è erroneo perché la riduzione della capacità di svolgere un lavoro non può misurarsi in punti percentuali, sicché il relativo “calcolo” manca del più importante presupposto: la scientificità. In punti percentuali si può misurare l’invalidità biologica, non l’incapacità di lavoro. Solo la prima infatti è identica per soggetti della stessa età, dello stesso sesso e con identici postumi. La capacità di lavoro invece è soggettiva e varia a seconda del tipo di lavoro svolto dalla vittima, come da tempo messo in evidenza dalla stessa dottrina medico legale, secondo la quale la capacità specifica è parametro a tal punto personalizzato ed individuale da rifuggire inquadramenti numerici, necessariamente limitativi ed imprecisi nella delineazione di un concetto cui può ritenersi estraneo ogni schematismo.
In terzo luogo qualsiasi misurazione (percentuale o di altro tipo) esige che si disponga d’una unità di misura: ma non esiste alcun barème medico legale dal quale ricavare la percentuale di riduzione di capacità di lavoro. Il danno biologico si può misurare in punti percentuali perché esso esprime la riduzione della capacità di svolgere le attività quotidiane ed ordinarie (camminare, leggere, curare la propria persona, ecc.), e le attività quotidiane sono uguali per tutti. Questo rende possibile, sulla base dell’osservazione dei casi analoghi, redigere una tabella delle percentuali di menomazione collegate ad ogni singola invalidità. L’incapacità lavorativa invece non può misurarsi in punti percentuali perché non disponiamo di un barème, né un barème delle incapacità lavorative potrebbe concepirsi, per l’infinità varietà delle attività lavorative in cui può impegnarsi un essere umano, e le altrettanto infinite modalità con cui il medesimo lavoro può essere svolto da persone diverse.
In quarto luogo, infine, pretendere che il danno da lucro cessante debba ritenersi dimostrato sol perché sia stata apprezzata dal medico legale una certa misura percentuale di “incapacità lavorativa specifica” è affermazione giuridicamente erronea, in quanto l’accertamento dell’esistenza di postumi permanenti incidenti sulla capacità lavorativa specifica esprime solo la possibilità del danno, non la sua certezza e tanto meno la sua probabilità, e non comporta perciò l’automatico obbligo di risarcimento del danno patrimoniale da parte del danneggiante (ex multis, Cass. Sez. 3, 03/07/2014, n. 15238). L’infinità varietà delle persone, dei lavori da esse svolti e dei postumi permanenti che possono residuare ad un infortunio fanno della decisione sull’esistenza del danno da lucro cessante un giudizio sintetico a posteriori, non un giudizio analitico a priori. È dall’accertata diminuzione del reddito che deve risalirsi alla prova del danno ed alla sua causa; non è invece corretto, una volta ritenuta in astratto l’ “incapacità lavorativa” della vittima, desumerne la prova d’una contrazione patrimoniale, senza nessun accertamento in concreto d’una deminutio patrimonii. Questo principio, oltre che imposto dagli artt. 1223 e 2056 c.c., è stato indicato come il criterio preferibile di liquidazione del danno anche dall’ “Allegato” (Annexe) alla Risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa 14.3.1975, n. 75-7. Tale risoluzione, con l’intento di attenuare le divergenze di leggi e prassi tra i Paesi aderenti alla CEDU (così si legge nel preambolo), ha raccomandato agli Stati membri di “prendere in considerazione”, allorché adottino nuove legislazioni sul tema dei danni alla persona, i princìpi contenuti nel suddetto “Annexe”. Ebbene, il par. II, punto 6, dell’Annexe raccomanda che nella liquidazione del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro si tenga conto “dei redditi della vittima posteriori al sinistro, comparati con quelli che avrebbe ottenuto se il fatto dannoso non si fosse verificato” (“il doit ètre tenu compte… de ses revenus (scilicet, della vittima, n.d.e.) après l’accident comparés à ceux qu’elle aurait obtenus si le fait dommageable ne s’était pas produit”), così confermando che la stima del danno in esame va compiuta in concreto, e non in base ad una astratta ed inafferrabile percentuale di “incapacità lavorativa specifica”.
L’incidenza dei postumi sulla capacità di lavoro andrà dunque valutata in base a tre passaggi: a) l’accertamento dei postumi; b) l’accertamento della compatibilità tra i postumi e il concreto tipo di impegno, fisico o intellettuale, richiesta dal lavoro svolto dalla vittima; c) l’esistenza in atto od in potenza d’una riduzione patrimoniale. Naturalmente questo giudizio ha per corollario che il danneggiato alleghi e provi il tipo di lavoro svolto, il tipo di mansioni corrispondenti, il tipo di impegno fisico o psichico da esse richiesto. Dimostrato ciò, il Giudice per la stima del danno in esame potrà ricorrere ovviamente anche alla prova presuntiva, che tuttavia dovrà basarsi su fatti noti dai quali risalire ai fatti ignorati, e non sul mero automatismo tra entità dei postumi e sussistenza del danno“.
In conclusione il Collegio formula il seguente i seguenti princìpi di diritto:
“L’accertamento del danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno, conseguente a lesioni personali, patito da un soggetto già percettore di reddito, deve avvenire: a) accertando l’entità dei postumi permanenti; b) accertando la compatibilità tra i postumi e l’impegno fisico o psichico richiesto dalle mansioni svolte dalla vittima; c) valutando se l’eventuale incompatibilità tra postumi e mansioni comporti, in atto od in potenza, una presumibile riduzione patrimoniale. Deve invece escludersi che gli accertamenti suddetti possano compiersi in abstracto, chiedendo al medico-legale di quantificare in punti percentuali la c.d. “incapacità lavorativa specifica”, e moltiplicando il reddito perduto per la suddetta percentuale. Sebbene il danno da lucro cessante causato dall’incapacità di lavoro possa dimostrarsi anche col ricorso alle presunzioni semplici, deve escludersi ogni automatismo tra il grado percentuale di invalidità permanente e l’esistenza del suddetto danno“.