La responsabilità della CONSOB

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Alcuni investitori convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB), chiedendone la condanna, a titolo di responsabilità contrattuale o, in subordine, extracontrattuale, al risarcimento dei danni subiti per aver omesso la convenuta le necessarie attività di controllo e di vigilanza nei confronti dell’intermediario, balzato all’attenzione della cronaca negli anni ’90 per il rilevante crac finanziario, che aveva visto coinvolti numerosi risparmiatori (tra cui per l’appunto gli attori) che avevano investito per il suo tramite anche ingenti somme di denaro. La Corte di Cassazione (sentenza del 22 ottobre 2025 n. 28119) chiamata ad esaminare il ricorso della Consob su alcuni aspetti relativi alla condanna emessa dalla Corte di Appello di Roma, così si pronuncia.

In ordine al primo motivo (circa l’efficacia dell’istanza di ammissione allo stato passivo di interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno fatto valere nei confronti di essa CONSOB) il Collegio rammenta che sul predetto tema: “è intervenuto, in epoca recente, un importante arresto nomofilattico, ossia la sentenza Cass., Sez. Un., n. 13143/2022, che ha tra l’altro affermato i seguenti principi di diritto: In caso di capitali conferiti a società fiduciarie di cui alla L. n. 1966 del 1939, lo strumento giuridico utilizzato per l’adempimento è quello del mandato fiduciario senza rappresentanza finalizzato alla mera amministrazione dei capitali medesimi, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti; conseguentemente la società fiduciaria che abbia mal gestito il capitale conferito, e che non sia quindi in grado di riversarlo ai mandanti perché divenuta insolvente, risponde sempre ed essenzialmente del danno correlato all’inadempimento del mandato e alla violazione del patto fiduciario, e la relativa obbligazione, quand’anche azionata mediante l’insinuazione concorsuale, e quand’anche parametrata all’ammontare del capitale conferito e perduto, è sempre un’obbligazione risarcitoria da inadempimento del mandato, la quale concorre ai sensi dell’art. 2055 c.c. con quella dell’organo chiamato ad esercitare l’attività di vigilanza (Ministero dello Sviluppo Economico)” (Rv. 664654-02); nonché: “Nel caso di società fiduciaria posta in liquidazione coatta amministrativa, l’ammissione allo stato passivo determina, sia per i creditori ammessi direttamente a seguito della comunicazione inviata dal commissario liquidatore ex art. 207, comma 1, L. Fall., sia per i creditori ammessi a domanda ex art. 208 L. Fall., l’interruzione della prescrizione con effetto permanente per tutta la durata della procedura, a far data dal deposito dell’elenco dei creditori ammessi, ove si tratti di ammissione d’ufficio, o a far data dalla domanda rivolta al commissario liquidatore per l’inclusione del credito al passivo, nel caso previsto dall’art. 208 L. Fall.; tale effetto, ai sensi dell’art. 1310, comma 1, c.c. si estende anche al Ministero dello Sviluppo Economico, ove coobbligato solidale per il risarcimento del danno da perdita dei capitali fiduciariamente conferiti nella società sottoposta a vigilanza e divenuta insolvente” (Rv. 664654-03). Il mezzo in esame pone il problema di stabilire se detti principi siano limitati alla sola ipotesi in cui la perdita dei capitali investiti dai risparmiatori sia avvenuta ad opera di una società fiduciaria ex lege n. 1366/1939 posta in liquidazione coatta amministrativa, o se essi possano senz’altro estendersi a tutte le ipotesi di mala gestio di somme da parte di intermediari finanziari, incaricati di investire il denaro altrui, se sottoposti a fallimento (oggi, a liquidazione giudiziale), e dunque se le domande di insinuazione al passivo proposte dagli investitori abbiano valenza interruttiva della prescrizione anche nei confronti dell’Autorità di vigilanza. Per completezza, può sin d’ora evidenziarsi che questa Corte ha già sostenuto la soluzione estensiva della suddetta questione, con la sentenza n. 19378/2023, evidenziando (in motivazione) che “la circostanza che le società (fallite, n.d.e.), soggette alla vigilanza della stessa Commissione, non siano società fiduciarie, non sposta i termini della questione, perché… il loro operato va pur sempre inquadrato (anche in relazione all’epoca antecedente all’entrata in vigore della legge sulle SIM, n. 1/1991) nell’egida del mandato (si veda, per tutte, Cass., Sez. Un., n. 26724/2007). Da tanto discende, dunque, che la responsabilità delle società in questione per la perdita del capitale investito dal risparmiatore deve pur sempre inquadrarsi -quale che sia il contenuto dell’insinua, ossia anche se con questa si sia chiesta meramente la ‘restituzione’ delle somme definitivamente perdute – nell’ambito della responsabilità risarcitoria di natura contrattuale, donde la generale prospettabilità della omogeneità dei crediti rispettivamente vantati contro le società finanziarie e contro la CONSOB, perché entrambi di natura risarcitoria (quantunque il primo di natura contrattuale, il secondo di natura aquiliana). Nessun problema di ‘pertinenza’ dell’atto interruttivo della prescrizione – ai fini dell’estensione nei confronti del condebitore solidale, ex art. 1310, comma 1, c.c. – è dunque ipotizzabile“. Deve pure segnalarsi che a conclusioni sostanzialmente analoghe era già pervenuta Cass. (ord.) n. 15276/2023, di poco precedente, concernente vicenda processuale identica a quella che occupa, trattandosi di risparmiatori coinvolti nel crac De.Gu., benché, in verità, nella motivazione del citato arresto non ci si sia soffermati sulla distinzione tra liquidazione coatta amministrativa e fallimento“.

Con il secondo motivo la CONSOB lamentava la decisione della Corte capitolina di estendere il citato insegnamento delle Sezioni Unite senza esaminare compiutamente le domande di insinuazione al passivo avanzate dai singoli investitori e quindi senza verificare se essi avessero azionato il credito restitutorio o il credito risarcitorio, in tal guisa violando il principio di pertinenza dell’atto interruttivo all’azione proposta; e che i principi affermati dalle Sezioni Unite nel 2022 sono stati enucleati in ragione della specifica disciplina delle società fiduciarie ex lege n. 1366/1939, il cui statuto implica che l’ammissione del creditore al passivo della relativa L.c.a., per i capitali investiti ma andati perduti, concerne “sempre e comunque” un diritto risarcitorio, perché i capitali restano sempre nella esclusiva proprietà del fiduciante: solo tale regime normativo, dunque, giustificherebbe il riconoscimento dell’efficacia interruttiva della prescrizione all’ammissione al passivo della procedura concorsuale anche nei confronti dell’Autorità di vigilanza, il che non è replicabile ove l’intermediario sia soggetto a fallimento, come nella specie.

Il Collegio ritiene al fine di rigettare anche questo secondo motivo di procedere all’esegesi della richiamata sentenza Cass., Sez. Un., n. 13143/2022, onde poi verificarne le ricadute sul tema, anche in relazione alla lettura datane dalla giurisprudenza ad essa successiva, affermando che: “ai fini della soluzione del contrasto nella giurisprudenza di legittimità sul tema in discorso (per un riepilogo dei relativi termini, si veda la citata Cass. n. 19378/2023, in motivazione, parr. 5.1.1-5.1.2), le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover muovere l’analisi a) dalla natura dell’accertamento del passivo nella liquidazione coatta amministrativa (procedura concorsuale in rilievo nel ricorso al loro esame), per poi concentrare la prospettiva b) sull’oggetto delle obbligazioni derivanti dal contratto di mandato per l’amministrazione fiduciaria dei capitali, scioltosi per effetto della dichiarazione d’insolvenza della società, sicché il credito dei fiducianti sia stato fatto valere nel passivo in relazione all’avvenuta perdita dei capitali conferiti.

Ciò posto, ribadita la piena configurabilità della responsabilità solidale risarcitoria ex art. 2055 c.c. quand’anche i condebitori rispondano per titoli diversi, l’uno a titolo di responsabilità contrattuale e l’altro a titolo di responsabilità extracontrattuale, solo rilevando l’unicità del fatto dannoso, le Sezioni Unite hanno evidenziato sulla prima questione chele norme sulla L.c.a. identificano l’insinuazione come avvinta da una prima (necessaria) fase niente affatto incentrata sull’intervento del giudice, sebbene e solo sul potere officioso del commissario liquidatore”, che a norma dell’art. 201 L.Fall. comunica a ciascun creditore, tra l’altro, le somme risultanti a credito secondo le scritture contabili i documenti dell’impresa. I creditori, si è proseguito, possono far pervenire al commissario le loro osservazioni o istanze, che non sono propriamente delle domande di parte e che non producono gli effetti di una istanza di ammissione al passivo fallimentare, dunque neppure gli effetti di una domanda giudiziale. Neanche le istanze avanzate dai creditori pretermessi (ossia, quelli non destinatari della comunicazione da parte del commissario liquidatore), onde far constare la sussistenza del credito e dunque l’ammissione al passivo, non essendo rivolte al giudice né implicandone l’intervento, costituiscono domande giudiziali, benché producano comunque l’effetto interruttivo della prescrizione, in modo permanente per tutta la durata della procedura concorsuale (si richiamano, in motivazione, Cass. n. 17955/2003, Cass. n. 4209/2004, nonché Cass. n. 12559/2021), quantomeno dal momento del deposito in cancelleria dell’elenco dei crediti ammessi (art. 209, comma 1, L.Fall.). Concludendo sulla prima questione, dunque, le Sezioni Unite hanno affermato il principio (in motivazione, par. XIV), secondo cui “l’ammissione del credito al passivo della L.c.a. determina un effetto interruttivo permanente del termine di prescrizione per l’intera durata della procedura, a far data dal deposito dell’elenco dei creditori ammessi, ove si tratti di ammissione d’ufficio, e a far data dalla domanda, rivolta al commissario liquidatore, per l’inclusione del credito al passivo, nel caso previsto dall’art. 208 legge fall.“.

Con riguardo alla seconda questione, le Sezioni Unite hanno ribadito che le società fiduciarie ex lege n. 1366/1939 sono regolate secondo lo schema della “fiducia germanistica”: se l’attività sia svolta in forma di impresa, essa presuppone per legge che “la società assuma l’amministrazione di beni per conto di terzi e la rappresentanza dei portatori di azioni o di obbligazioni (art. 1), sì da rimanere destinataria della sola legittimazione all’esercizio dei diritti relativi ai beni o ai capitali conferiti, senza trasferimento effettivo di proprietà”. Pertanto, le attività tipiche di tali società vanno tutte inquadrate nella amministrazione di elementi patrimoniali altrui, giacché esse operano in nome proprio sui capitali affidati secondo lo schema del mandato senza rappresentanza (si è richiamato l’insegnamento di Cass. n. 7634/2018): insomma, i fiducianti vanno identificati come gli effettivi proprietari dei beni da loro affidati alla fiduciaria e a questa strumentalmente intestati. Si è poi precisato che, nella giurisprudenza di questa Corte, s’è anche affermato che quando si tratti di mandato dei fiducianti a investire danaro, viene così costituito un patrimonio separato da quello della società, indifferente alle iniziative dei suoi creditori. Da tanto discendono, proseguono le Sezioni Unite, due fondamentali conseguenze (così in motivazione, par. XVII): “da un lato lo strumento giuridico utilizzato per l’adempimento è, quanto alle società di cui alla citata L. n. 1966 del 1939, quello del mandato fiduciario senza rappresentanza finalizzato alla mera amministrazione dei beni conferiti, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti; dall’altro e conseguentemente la società fiduciaria che abbia gestito malamente il capitale conferito, e che non sia quindi in grado di riversarlo ai mandanti perché divenuta insolvente, risponde essa stessa del danno correlato all’inadempimento del mandato e alla violazione del patto fiduciario. Così che la relativa obbligazione, quando azionata mediante l’insinuazione concorsuale, se anche parametrata all’ammontare del capitale conferito e perduto, è sempre un’obbligazione risarcitoria da inadempimento del mandato”. Non ha quindi alcun senso distinguere tra diritto restitutorio e risarcitorio, perché la “domanda di restituzione dei capitali andati in fumo è in ogni caso, per l’investitore, il presidio della reintegrazione patrimoniale, e quindi (sotto questo profilo) del danno da inadempimento del mandato fiduciariamente conferito“. Ciò posto, ritiene convintamente la Corte di dover dare continuità alla soluzione già offerta dalla citata Cass. n. 19378/2023, perché esattamente in linea con i presupposti logico-giuridici su cui si fonda il descritto pronunciamento delle Sezioni Unite (oltre che, come si dirà subito appresso, con le esplicite affermazioni contenute nella sentenza), con le ulteriori precisazioni che si diranno: ad opinare diversamente, specie nel senso anelato dalla ricorrente principale, occorrerebbe quindi nuovamente rimettere la questione che qui interessa alle Sezioni Unite, posto il vincolo derivante, per questa Sezione, dal disposto di cui all’art. 374, comma 3, c.p.c. Ma non è questo il caso.

Seguendo l’ordine adottato dalle Sezioni Unite e prima riassunto, va in primo luogo evidenziato che il significato attribuito dalla CONSOB (in entrambe le memorie illustrative) alla descritta specialità delle forme dell’accertamento del passivo nella L.c.a., rispetto a quelle del fallimento (che solo rileva nel caso che occupa), onde farne discendere conseguenze decisive ai fini dell’accoglimento del mezzo in esame, appare decisamente eccentrico e mal posto. Come si desume chiaramente dai passaggi della motivazione di Cass., Sez. Un., n. 13143/2022 prima riportati (par. 3.4.3), il Massimo Consesso s’è fatto carico di descrivere la specialità del procedimento di formazione dello stato passivo nella L.c.a. al solo scopo di affermare claris verbis la necessità di assicurare parità di trattamento al ceto creditorio – quale che fosse la procedura concorsuale -rispetto al tema della sospensione della prescrizione per tutta la durata della procedura stessa, posto che nella L.c.a. non è ordinariamente riscontrabile una “domanda giudiziale”, a differenza che nel fallimento. Si è voluto, cioè, dichiarare che il risparmiatore (per rapportare le questioni alle fattispecie in rilievo) che, a causa di mala gestio dell’intermediario, abbia perduto il capitale investito, gode della sospensione della prescrizione nei confronti dell’Autorità di vigilanza, coobbligata solidale con l’intermediario decotto, sol che egli sia stato ammesso allo stato passivo di una procedura concorsuale, quale che sia, e a prescindere dal fatto che, per detta insinuazione, egli abbia o meno presentato una domanda, secondo la rispettiva disciplina. Del resto, costituisce considerazione invero elementare che, se tanto vale allorché addirittura difetti una domanda, osservazione o istanza che sia, da parte del risparmiatore (come nella L.c.a., per aver in ipotesi il commissario liquidatore operato senz’altro d’ufficio), allora tanto non può non valere quando non solo una istanza vi sia (come nella specie, in cui tutti gli originari attori proposero insinuazione al passivo del fallimento della s.d.f. De.Gu. ed De.An.), ma ad essa sia senz’altro attribuibile la valenza di vera e propria domanda giudiziale, con gli effetti propri dell’art. 2945, comma 2, c.c. 3.5.3 – Venendo ora al tema delle società fiduciarie ex lege n. 1366/1939, le Sezioni Unite hanno rilevato che anche in caso di mandato ad amministrare e investire somme di denaro, poiché la “proprietà” delle somme resta sempre in capo al fiduciante, trattandosi di “fiducia germanistica” (e costituendo detti valori vero e proprio patrimonio separato rispetto a quello della società), in caso di dispersione del capitale l’intermediario – che opera come mandatario senza rappresentanza – risponde necessariamente a titolo risarcitorio, non essendo configurabile la restituzione delle somme “in natura”. In altre parole, la relativa domanda di insinuazione, quale che sia il suo contenuto (anche se con essa si sia chiesta la mera restituzione del capitale, anziché il risarcimento del danno) è sempre di natura risarcitoria.

Tuttavia, non è affatto vero che quella appena ripetuta sia la fondamentale ratio decidendi a sostegno della natura del credito risarcitorio dell’insinuazione al passivo, come sostenuto dalla CONSOB nelle memorie illustrative, perché è evidente che detto percorso decisorio è certamente permeato dalla specifica fattispecie al vaglio delle Sezioni Unite; esso, però, giunge all’esito di una complessiva valutazione che individua il vero fulcro del problema che qui specialmente interessa nell’esistenza di un mandato tra investitore e intermediario stesso, e nella sorte di detto contratto per effetto dell’insolvenza dell’intermediario. Si vuole cioè dire che il Massimo Consesso, onde affermare la natura “sempre e comunque” risarcitoria dell’insinuazione al passivo, ha valorizzato un argomento (quello della “proprietà” dei capitali investiti) offerto dalla fattispecie, ma che neppure risulta, a ben vedere, così decisivo, nella stessa prospettiva del più volte citato arresto nomofilattico. Infatti, in un precedente passaggio della motivazione (parr. IX e X), discutendo della correttezza o meno della distinzione tra credito risarcitorio e credito restitutorio, come sostenuta da alcuni arresti di questa stessa Sezione (Cass. n. 27118/2018; Cass. n. 1070/2019), le Sezioni Unite così si esprimono: “Detto altrimenti: secondo questa tesi la pretesa restitutoria, sebbene azionata con l’insinuazione dopo la dichiarazione d’insolvenza, sarebbe (o potrebbe essere) teoricamente estranea al debito risarcitorio, in quanto avente fondamento non in un danno ma nella mancanza di causa (originaria o sopravvenuta) del pagamento eseguito….. X. – Occorre subito chiarire che una simile distinzione, ove si discorra sia del fallimento, sia e massimamente della L.c.a. della società fiduciaria soggetta alla L. n. 1966 del 1939, non è conducente. Come meglio si dirà, dinanzi alla perdita del capitale conferito in gestione a una fiduciaria, e dinanzi alla dedotta mala gestio della fiduciaria medesima (dichiarata insolvente) come base causale di quella perdita (tale è la fattispecie concreta, secondo postulazione), non ha alcun senso discorrere di un semplice credito restitutorio. La perdita del capitale conferito espone la fiduciaria al risarcimento del danno da inadempimento del mandato ad amministrare, secondo quanto stabilito per il tipo di società di cui alla L. n. 1966 del 1939; sicché oggetto della pretesa fatta valere mediante l’insinuazione concorsuale resta – in queste fattispecie – sempre e solo il danno da inadempimento, ancorché parametrato alla perdita del capitale conferito” (enfasi aggiunta).

Il ragionamento sviluppato dalle Sezioni Unite per la società fiduciaria in L.c.a., cioè, è espresso anche in relazione al fallimento e alle conseguenze che questo determina sul mandato ad investire, anche se la sentenza si sofferma poi sulla specificità della fattispecie, giacché il tema della “proprietà” delle somme offre -per così dire – una ragione più liquida o immediata, a sostegno della indefettibile natura risarcitoria del diritto oggetto dell’insinuazione al passivo (i controricorrenti colgono esattamente il punto, nella seconda memoria). Ma ciò non toglie che la presunta necessità di distinguere, in tali casi, tra credito restitutorio e credito risarcitorio oggetto dell’insinuazione al passivo, propugnata dalle citate Cass. n. 27118/2018 e Cass. n. 1070/2019, è stata espressamente disattesa da Cass., Sez. Un., n. 13143/2022 non solo in relazione alla L.c.a., ma anche al fallimento. Insomma, la tesi propugnata dalla ricorrente principale si fonda su principi (affermati da Cass. n. 27118/2018 e Cass. n. 1070/2019, invocate dalla CONSOB) che le Sezioni Unite hanno ritenuto – ore rotundo – di non poter condividere.

Venendo poi alle serrate critiche mosse dalla CONSOB alla citata Cass. n. 19378/2023 (v. par. 3.2), come esplicitate in entrambe le memorie, esse -anche per quanto fin qui detto – costituiscono un fuor d’opera. Quanto alla pretesa contraddizione col diritto sostanziale (segnatamente, con le previsioni dell’art. 1706, comma 1, e 1713 c.c., secondo cui il mandatario deve rimettere al mandante tutto ciò che gli spetta e ciò che ha conseguito in esecuzione del mandato, sicché il mandante può sempre vantare il diritto alla restituzione di ciò che gli spetta, senza che sorga automaticamente il diritto al risarcimento del danno), la ricorrente principale non considera che le invocate disposizioni attengono alla fisiologia del rapporto, non certo alla patologia, ossia – per ciò che qui interessa – a quanto discende dall’inadempimento del mandatario alle proprie obbligazioni e alle conseguenti iniziative processuali del mandante. Come è pacifico tra le parti, qui si discute di un mandatario che, invece di investire le somme ricevute dai risparmiatori, le ha utilizzate per finalità diverse ed egoistiche, sottraendole illecitamente alla loro destinazione: si tratta di un inadempimento definitivo (e pure doloso). E se anche ciò non impedisce al mandante, in astratto, di agire per l’adempimento (ossia, per “rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario”, oppure per conseguire dal mandatario “tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato”, come rispettivamente previsto dagli artt. 1706 e 1713 c.c.), nel caso di specie tanto non è comunque possibile, perché l’azione non può essere spiegata nei confronti della procedura fallimentare (v. sul tema, esplicato non solo in relazione alla impresa posta in L.c.a., ma anche riguardo al fallimento, la ripetuta Cass., Sez. Un., n. 13143/2022, in motivazione, par. XIII), stante lo scioglimento del contratto di mandato in forza dell’art. 72 L.Fall., come è incontroverso essere avvenuto nella vicenda che occupa. Quindi, in siffatti casi, non ha alcun senso discutere se la domanda di insinuazione al passivo sia di mera “restituzione” del capitale investito, oppure di vero e proprio risarcimento del danno: se il mandato conferito all’intermediario è collegato al funzionale deposito di somme di denaro, andato disperso come nella specie, l’obbligo di restituire la cosa depositata ex art. 1766 c.c. (nelle forme della restituzione del tantundem, ai sensi dell’art. 1782 c.c., stante la natura fungibile del denaro) non è più eseguibile, stante la perdita totale del capitale e l’insolvenza della società finanziaria: può solo venire in rilievo, logicamente, un credito risarcitorio, proprio perché fondato – di norma -sull’inadempimento definitivo. Il che spiega perché il tema della “proprietà” delle somme di denaro sia un falso problema: è certo più agevole affermare, come hanno fatto le Sezioni Unite, che la dispersione di un patrimonio valoriale anche formalmente riferibile al risparmiatore (tanto discende dall’adozione della tesi del patrimonio separato) obbliga il mandatario a risarcire il danno, per la avvenuta definitiva soppressione o dispersione di beni altrui; ma la stessa conclusione è del tutto predicabile anche in relazione ad un “ordinario” mandato ad investire, collegato alla consegna di somme di denaro (ossia, di beni mobili fungibili), posto che – in casi come quelli che occupano – non v’è più nulla da restituire: nel caso di deposito di cose fungibili, la stessa restituzione del tantundem opera pur sempre sul piano della fisiologia del rapporto, non della patologia, come invece qui rileva.

Quanto precede, poi, ridonda sulla seconda critica posta dalla CONSOB a Cass. n. 19378/2023 nelle memorie illustrative, ossia il presunto “contrasto con fondamentali principi del diritto processuale”, che sarebbe espressione della soluzione adottata dal citato arresto. Ciò perché, secondo la ricorrente principale, la domanda di insinuazione al passivo del fallimento è una domanda giudiziale, sicché per essa non possono che valere il principio della domanda e della disponibilità della tutela giudiziale, nonché quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Da tanto consegue che se il risparmiatore, con l’istanza di insinuazione al passivo, ha chiesto soltanto la restituzione del capitale investito, ritenere che l’istanza abbia ad oggetto necessariamente un diritto risarcitorio equivarrebbe a consentire al giudice di considerare esercitato un diritto che non solo il risparmiatore non ha azionato, ma che risulta addirittura contraddetto dalla concreta volontà dell’istante, come manifestata nell’atto. Ora, fermo restando che, in linea di principio, non può prescindersi dall’esame dello specifico contenuto della domanda di insinuazione (non senza rilevare che, come anche eccepito dai controricorrenti, la CONSOB non s’è fatta carico di descrivere analiticamente le domande da loro presentate e che rilevano nel presente giudizio), non si tratta certo – al contrario di quanto opinato dalla ricorrente principale – di sostituire la volontà del giudice a quella della parte, ma solo di darvi la corretta interpretazione, al lume delle prospettate ragioni della domanda (causa petendi) e di ciò che si è chiesto al giudice (petitum). Nient’altro. Tanto, anche nell’egida dell’insegnamento di Cass., Sez. Un., n. 12310/2015, rientra appieno nei poteri dell’autorità giudiziaria adita, posto che “Il giudice ha il potere di qualificare la domanda in modo diverso rispetto a quanto prospettato dalle parti a condizione che la ‘causa petendi’ rimanga identica, il che deve escludersi quando i fatti costitutivi del diritto azionato, intesi quale fondamento della pretesa creditoria e non quali fatti storici, mutano o, se già esposti nell’atto introduttivo del giudizio in funzione descrittiva, vengono dedotti con una differente portata” (per tutte, Cass. n. 10402/2024). Pertanto, pur non potendo in astratto escludersi che la domanda di insinuazione – per qualsivoglia ragione – sia stata confezionata dal risparmiatore che ha perso il proprio investimento in denaro nel senso di ottenere dagli organi fallimentari una vera e propria restituzione ai sensi dell’art. 93 L.Fall. (risulta perfino arduo ipotizzare casi di scuola, come ad es. nell’ipotesi in cui la domanda di restituzione abbia ad oggetto esattamente le stesse banconote consegnate all’intermediario, individuate da distinti numeri seriali; in tal caso, infatti, l’intermediario non avrebbe potuto procedere all’investimento, com’è intuitivo, non potendo utilizzare il denaro del risparmiatore), pare evidente che una “ordinaria” istanza di insinuazione avente ad oggetto la restituzione del capitale investito e andato perduto per mala gestio non può che necessariamente significare, dal punto di vista giuridico, che il risparmiatore non tanto mira a riottenere quelle stesse somme consegnate all’intermediario infedele, ma piuttosto a ripristinare il proprio patrimonio dalla corrispondente deminutio derivante dell’inadempimento dell’intermediario stesso: dunque, inequivocabilmente e al di là della stessa semantica, nella normalità dei casi una simile domanda non può che assumere natura risarcitoria“.

A fronte di ciò il Collegio conclude che: “l’atto interruttivo della prescrizione, costituito dalla domanda di insinuazione al passivo da parte del risparmiatore, è da considerare senz’altro pertinente rispetto alla domanda risarcitoria da questi eventualmente promossa nei confronti dell’Autorità di vigilanza, perché avente la medesima natura (benché l’insinuazione si fondi sul contratto, mentre quest’ultima si fondi sul dovere del neminem laedere), contrariamente all’assunto della CONSOB. Può conclusivamente ribadirsi, in piena continuità con l’insegnamento di Cass. n. 19378/2023, che l’operato di un intermediario finanziario, soggetto alla vigilanza della CONSOB ed eventualmente dichiarato fallito, va considerato nell’egida del mandato (si veda, per tutte, Cass., Sez. Un., n. 26724/2007). Pertanto, la responsabilità dell’intermediario per la perdita del capitale investito dal risparmiatore deve di regola inquadrarsi – quale che sia il contenuto dell’istanza di insinuazione al passivo, ossia anche se con questa si sia chiesta meramente la “restituzione” delle somme definitivamente perdute e salva l’inequivoca ed espressa manifestazione di una diversa volontà – nell’ambito della responsabilità risarcitoria di natura contrattuale, donde la generale prospettabilità della omogeneità dei crediti rispettivamente vantati contro l’intermediario e contro la CONSOB, perché entrambi di natura risarcitoria (quantunque il primo di natura contrattuale, il secondo di natura aquiliana). In tale ipotesi, l’atto interruttivo della prescrizione – ai fini dell’estensione nei confronti del condebitore solidale, ex art. 1310, comma 1, c.c. – è da considerare senz’altro pertinente rispetto al diritto fatto valere“..

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Avvocato Massimo Palisi - Padova

Nato a Catanzaro in data 24 aprile 1969, consegue la maturità classica (voto 60/60) e la laurea in giurisprudenza presso l’Università di Padova (voto 105/110). Viene eletto per il biennio 1992/94 Segretario Nazionale della Fuci (Federazione Universitaria Cattolici Italiani).

Avvocato dal 1999, Cassazionista dal 2016, svolge la propria attività a livello nazionale, operando nell’ambito del diritto sostanziale e processuale civile, con particolare elezione per le tematiche relative alla responsabilità civile (sia in ambito contrattuale che extracontrattuale), alla tutela della persona e dei consumatori in generale (e sotto il profilo risarcitorio in particolare), al diritto del lavoro, al diritto delle assicurazione. Svolge inoltre assistenza a favore delle vittime nell’ambito delle procedure penali.

Ha deciso di non essere fiduciario di alcuna compagnia di assicurazione e/o banche, per non intaccare la propria opera di tutela nei confronti dei danneggiati e dei consumatori.

Ha collaborato, nel primo decennio del 2000, con Cittadinanzattiva Onlus, risultando membro: a) del gruppo studio “Assicurazioni ” del CNCU, istituito presso il Ministero delle Attività Produttive; b) del collegio del Nord Italia dei conciliatori istituito presso il gruppo Banca Intesa, c) del gruppo di studio istituito presso l’ANIA per l’emanazione del nuovo Codice delle Assicurazioni. Ha svolto corsi seminariali in tema assicurativo a livello nazionale, promossi e patrocinati dal Ministero delle Attività Produttive.

È stato relatore in diversi convegni giuridici di carattere nazionale.

Avvocato Evenlina Piraino - Padova

Nata a Cosenza in data 29 settembre 1981, consegue il diploma di maturità al liceo scientifico (voto 100/100) e si laurea nel 2006, presso l’Università di Cosenza (UNICAL), in giurisprudenza (voto 108/110) discutendo una tesi nell’ambito del diritto del lavoro (“Il nuovo sistema di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali: Decreto Legislativo n. 38/2000′) e del diritto assicurativo (“Il sistema assicurativo sociale in ambito europeo”).

È avvocato dal 2009; fa parte dello studio dal 2013. Si occupa prevalentemente di diritto civile, sostanziale e processuale, diritto del lavoro, diritto di famiglia, procedure stragiudiziali e di mediazione. Nell’ambito della materia di elezione dello studio legale, si interessa in particolare degli istituti di responsabilità civile speciale, di quello di natura professionale, oltre alla tutela degli animali e dell’ambiente, a vantaggio del quale svolge anche attività di volontariato sociale.

È attiva nell’ambito del diritto di famiglia e della tutela dei minori, nonché della tutela dei diritti della persona in generale, dei consumatori e della proprietà intellettuale.

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