Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (richiamata nella sentenza del 30 ottobre 2025 n. 28715): “sul presupposto che la circolazione di prova è consentita a veicoli che non incontrerebbero, al fine di poter circolare su strada, altro impedimento che non sia quella della mancanza della carta di circolazione (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, ord. 7 maggio 2018, n. 10868, Rv. 648828-01), la targa prova rappresenta, in definitiva, una deroga alla previa immatricolazione e alla documentazione propedeutica alla “messa in circolazione“, sicché, se l’auto è già in regola con i due presupposti (Carta di circolazione e immatricolazione), la deroga non è funzionale allo scopo”, concludere che: “la targa prova e la relativa specifica assicurazione (diversa dalla r.c.) non operano nel caso di veicolo cui sia stata rilasciata la carta di circolazione, a seguito di regolare immatricolazione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 25 agosto 2020, n. 17665, Rv. 658824-01; Cass. Sez. 3, ord. 14 dicembre 2020, n. 28423, non massimata).
Nell’uniformarsi a tali principi, la sentenza impugnata ha escluso che, rispetto ad un sinistro verificatosi in data 9 dicembre 2016, possa trovare applicazione la sopravvenuta disciplina di cui all’art. 1, commi 3 e 4, del decreto-legge 11 settembre 2021, n. 121, convertito, con modificazioni, nella legge 9 settembre 2021, n. 156. In base ad essa, infatti, è consentito l’uso della targa prova anche su veicoli già immatricolati per motivi, tra gli altri, connessi a “ragioni di vendita”, che si assumono ricorrenti nel caso di specie.
Il Collegio rileva che: “si tratta, per vero, di affermazione corretta, perché, come rileva anche il Procuratore Generale presso questa Corte, il testo della norma non postula alcuna espressa deroga all’art. 11 preleggi, né può dirsi che la sopravvenuta disposizione svolga alcuna funzione di “interpretazione autentica”. Invero, nel silenzio non solo della legge, ma pure dei suoi lavori preparatori (il testo del disegno di legge n. 3278, presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 10 settembre, nulla riferisce in merito alla necessità di risolvere contrasti interpretativi esistenti circa la possibilità di utilizzazione della targa prova su veicoli già immatricolati), la sussistenza di prassi interpretative differenti, tra il Ministero degli interni e quello delle infrastrutture e trasporti, non è – in assenza di ulteriori riscontri, che confermino tale conclusione, ricavabili dall’iter parlamentare di approvazione della legge – elemento utile per affermare che il legislatore sia intervenuto in materia con lo strumento della norma di interpretazione autentica, e ciò per le ragioni di seguito meglio illustrate.
Non è questa, ovviamente, la sede per chiarire la natura della norma di interpretazione autentica. Ovvero, se essa – secondo i postulati della c.d. “teoria dichiarativa” – si limiti a dichiarare il contenuto già espresso nella legge interpretata, avendo così valore meramente ricognitivo (di talché la sua retroattività sarebbe solo “apparente”, giacché la nuova norma si limiterebbe ad assicurare l’applicazione di quella originaria nella sua esatta portata). Oppure, all’opposto, se si connoti – come assumono i fautori della c.d. “teoria decisoria” – per il suo carattere precettivo, imponendo che la disposizione contenuta nella legge interpretata si interpreti secondo il significato da essa stessa datole.
Ciò di cui va dato conto, invece, in questa sede è che la stessa giurisprudenza costituzionale – superando la propria impostazione tradizionale, che circoscriveva il legittimo ricorso alla norma di interpretazione autentica unicamente ai casi in cui “la legge anteriore” rivelasse “gravi ed insuperabili anfibologie” o avesse “dato luogo a contrastanti applicazioni, specie in sede giurisdizionale” (Corte cost., sent. 11 novembre 1981, n. 187) – abbia ampliato la portata di consimili interventi. È stato, infatti, riconosciuto, da tempo, che “il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze nell’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali” (tra le molte, Corte cost., sent. 17 ottobre 2011, n. 271), ma persino “in presenza di indirizzi omogenei” circa la sua portata, sempre che, beninteso, “la scelta imposta per vincolare il significato ascrivibile alla legge anteriore rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario” e che ricorra, inoltre, la duplice condizione che l’intervento “trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza” e non contrasti con “valori ed interessi costituzionalmente protetti” (tra le molte, Corte cost., sent. 10 luglio 2002, n. 374). Ma affinché l’evenienza da ultimo descritta possa ritenersi integrata, ovvero perché possa concludersi che il legislatore – in difetto di un’espressa deroga al divieto d’irretroattività, ex art. 11 delle preleggi – abbia fatto ricorso ad una norma d’interpretazione autentica, pur in presenza di indirizzi omogeni (così valendosene, per dirla con un certa dottrina, quale strumento per opporsi al “consolidamento di uno specifico orientamento giurisprudenziale, la cui cifra caratteristica sarebbe da rintracciarsi nella contrarietà a quanto disposto dal legislatore, costretto, al fine di imporre la propria interpretazione, ad un intervento correttivo”), occorre che una siffatta “voluntas legis” possa essere univocamente accertata. Vale a dire, che a tanto possano condurre i lavori preparatori sia della legge cui appartiene la norma interpretata, sia di quella recante la norma interpretativa. Tale non essendo, però, il caso di specie, deve concludersi per l’impossibilità di attribuire natura interpretativa alla norma sopravvenuta invocato dal ricorrente“.




