Il ricorrente contestava la liquidazione del danno morale (relativo ad una micropermanente) da parte della Corte d’Appello, sostenendo che non erano stati allegati né provati elementi concreti e specifici da parte dell’attrice tali da giustificare una sofferenza interiore autonoma e meritevole di ristoro. La Corte avrebbe dunque violato il principio di diritto secondo cui il danno morale, quale voce autonoma, non può essere riconosciuto in via automatica, ma solo in presenza di circostanze peculiari e provate, diverse dalla mera sofferenza fisica in quanto già considerata nella liquidazione del danno biologico.
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 9 dicembre 2025 n. 31989, considera infondato il motivo del ricorso, rilevando che: “la Corte d’Appello fornisce congrua giustificazione del confermato giudizio di sussistenza di danno morale risarcibile, pertinentemente valorizzando a tal fine la “peculiare sofferenza patita dalla Ve.Pa., sottopostasi ad ulteriori e dolorosi interventi, in un arco di due anni, per ovviare all’aggravamento della sua condizione fisica”. Tali elementi giustificano certamente il ragionamento di tipo inferenziale implicitamente adottato dalla Corte per giungere al contestato esito.
Va rammentato in proposito che, come più volte evidenziato dalla giurisprudenza di questa Corte (v., da ultimo, Cass. Sez. U. n. 5992 del 06/03/2025, in motivazione, par. 14), se è vero che nel caso del danno non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente protetti della persona quel che rileva ai fini risarcitori non è la lesione in sé del diritto ma le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, nella “doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell’essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza” (Cass. 17/01/2018, n. 901), da allegare e provare da parte del danneggiato, è anche vero che tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti. Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato; in tali casi è consentito, dunque, riconoscere come esistente il dedotto pregiudizio morale sulla base di massime esperienze che, secondo l’id quod plerumque accidit, correlano la sofferenza interiore a quel particolare tipo di lesioni e patimenti e che può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante (Cass. 10/11/2020, n. 25164)“.




