La Corte d’Appello condivide “l’ipotesi formulata dai CTU“, cioè che l’evento emorragico fu “imprevisto ed imprevedibile“, che i sanitari intervennero “immediatamente” e che “quindi la morte del neonato non era eziologicamente collegata alla condotta omissiva dei medici“, rigettava la domanda risarcitoria avanzata dalla madre. La stessa nel ricorrere avanti la Corte di Cassazione, evidenziava che la cartella clinica non conteneva in realtà alcuna annotazione per il periodo dalle ore 12.50 del 27 dicembre alle ore 5,00 del 28 dicembre, rilevando la carenza della stessa cartella per “annotazioni prive di orario e di firma, carenza dell’orario della emergenza, dell’inizio e fine dell’intervento“. Secondo la ricorrente la cartella clinica è “un atto pubblico fondamentale” per l’accertamento, e “nei casi in cui la ricostruzione delle modalità e della tempistica della condotta del medico non può giovarsi delle annotazioni… nella cartella clinica, a causa della omessa tenuta o lacunosa redazione…, gli effetti sono addossati al sanitario“, o attribuendo alle omissioni in cartella il valore di nesso eziologico presunto (si invocano Cass. 11316/2003 e S.U. 577/2008) o ravvisandovi “figura sintomatica di inesatto adempimento” perché è obbligo del medico – così esercitando la sua diligenza professionale – “controllare la completezza e l’esattezza” di cartelle cliniche e referti allegati (si citano Cass. 1538/2010 e Cass. 20101/2009). E la difettosa tenuta della cartella clinica consente pure di ricorrere alle presunzioni, per cui “l’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno“, al paziente essendo tuttavia necessario sia che il nesso non possa accertarsi proprio per incompletezza della cartella, sia che la condotta del sanitario risulti comunque astrattamente idonea a cagionare il danno.
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 15 dicembre 2025 n. 32616, ritiene simili argomentazioni del tuto corrette, ritenendo errata la decisione del giudice di merito: “per avere attribuito alla paziente “l’onere della prova di fatti clinici” ed essersi basato soltanto “sulle risultanze della consulenza tecnica”, la quale ha ritenuto corretto il comportamento dei medici ed è però “carente, deducente e contraddittoria in difetto di prova che i sanitari avessero adempiuto diligentemente “in quelle ore vuote della cartella” al loro operato di assistenza e monitoraggio”. La corte territoriale, secondo la ricorrente, è incorsa in errore laddove, a fronte di “un vuoto” di 17 ore (più precisamente, di 16 ore circa: n.d.r.) nella cartella clinica, ha condiviso “l’ipotesi formulata dai consulenti che l’evento emorragico fosse stato imprevedibile, improvviso”, senza affrontare invece l’ipotesi che la paziente, con una storia clinica che la metteva “a rischio”, “fosse stata lasciata senza assistenza già dal ricovero”. In conclusione, ribadito che la sentenza d’appello patisce vizio motivazionale e violazione della ripartizione probatoria, la ricorrente sostiene che la corte territoriale è pervenuta a rendere “l’imperfetta compilazione della cartella” uno svantaggio processuale per il paziente, anziché per “la parte cui il difetto di annotazione è imputabile”, violando così “il criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria” sull’esattezza del suo adempimento.
Il Collegio evidenzia che: “questi motivi sostanzialmente – dovendosi riqualificare, in relazione all’effettivo contenuto delle censure, come denuncia di carenza di motivazione e/o motivazione apparente – evidenziano l’assenza di una reale motivazione nella sentenza, nel senso che il giudice d’appello non ha fornito alcuna spiegazione del “vuoto” presente nella cartella clinica (realmente assai ampio, quantomeno in termini cronologici) in relazione ai precedenti della partoriente (altri tre esiti negativi a quaranta settimane) e all’apparentemente improvvisa comparizione di una situazione gravissima, per cui il neonato morì quasi subito. Invero, una ragionevole ipotesi di negligenza potrebbe ricorrere a fronte di una paziente con tre precedenti siffatti aborti tenuta per un periodo così lungo – più di sedici ore – senza alcuna visita di controllo, pur essendo stata ricoverata proprio per il parto in epoca di naturale scadenza; il che, tuttavia, non trova considerazione alcuna nella motivazione offerta.
Correttamente, allora, pur con qualche deviazione fattuale, la ricorrente rimanda all’insegnamento della giurisprudenza di questa Suprema Corte, per cui l’inadeguatezza/incompletezza della cartella clinica incide sull’esistenza del nesso causale, rimarcando che, nel caso in esame, “l’esistenza del nesso di causa tra la condotta del medico e danno del paziente non possa essere accertata proprio a causa della incompletezza della cartella”: rectius, evidenzia che “il vuoto” di almeno sedici ore impedisce di accertare la causa per cui la De.Ca. si trovò improvvisamente in un bagno di sangue (come ben si deduce dal rigo redatto nella cartella stessa dal dr. Pa. in relazione alle h.5.00 del 28 dicembre per descrivere in che condizioni ella era scesa “dal piano” alla “sala operatoria”), ovvero accertare se vi sia stato o meno un evento imprevedibile. E qui il giudice d’appello manifesta una impostazione accertatoria e quindi motivazionale apodittica, perché dà per scontata tale imprevedibilità, come se le emorragia di tal genere avvengano sempre in un siffatto modo.
Desta d’altronde una qualche perplessità il fatto che né in primo grado, né – nonostante venisse impetrata mediante il terzo motivo d’appello – in secondo grado (riprendendo appunto la richiesta già avanzata davanti al Tribunale) sia stata disposta una consulenza tecnica d’ufficio (così da svolgere una valutazione tecnica nel pieno contraddittorio come usualmente avviene perché concretizza il diritto di difesa in materie tecniche), per decidere invece, in sostanza, solo in base a quella che viene definita “consulenza svolta nel separato procedimento penale”, condividendo il secondo giudice la singolare spiegazione del primo giudice quanto al diniego di disporre consulenza tecnica d’ufficio. Asserisce, infatti, la corte territoriale che la CTU “avrebbe, con tutta evidenza ed a fronte delle precise e dettagliate conclusioni raggiunte dai consulenti della Procura, perseguito finalità meramente esplorative”. Non è integralmente comprensibile la qualificazione, adottata dal Tribunale prima e poi dalla Corte d’Appello, come esplorativa per una consulenza tecnica d’ufficio in quanto vi sia stata una consulenza di parte in un procedimento penale. La sentenza qui impugnata offre, comunque, proprio una motivazione apparente e anche gravemente illogica. Dapprima (a pagina 7) si riconosce che “le doglianze dell’appellante – riferibili… alla “gestione del periodo precedente alla verificazione della emergenza” – consistono nella mancanza di “un monitoraggio più assiduo e particolarmente accurato già all’atto del ricovero”” e “nella circostanza che sarebbe stata lasciata priva di monitorizzazione per quasi 17 ore”, oltre che il parto era anticipabile di circa quindici ore; poi si risponde a tali doglianze in modo apodittico e, a ben guardare, mediante il mero rinvio proprio a quel che era oggetto a censura – così ancora a pagina 7: “ciò, a fronte della articolata motivazione addotta dal primo giudice in ordine alle “perentorie conclusioni rassegnate dai consulenti della Procura” circa la non sussistenza del nesso causale” -. Seguono ulteriori frasi assertive estratte, sembra, dalla relazione dei consulenti del PM (sentenza, pagina 8), tra cui l’asserto che erano indimostrate “circostanze tali da indurre a praticare anticipatamente il taglio cesareo”: il che senza però spiegare come potevano emergere circostanze se per ben sedici ore – come appare proprio dalla cartella clinica – nessun medico passò a controllare la situazione della partoriente e a verificare come si stava evolvendo, tanto più considerati i suoi precedenti tre aborti nella periodo finale della gravidanza“.




