Non riesco a comprendere questo rumore che sento in sottofondo, mentre parlo al telefono con il Cliente.
Mi ha richiamato dopo qualche giorno che ci eravamo incontrati. Ha perso un figlio (appena diciottenne) in un incidente stradale, ritornando da una festa. Mi aveva telefonato chiedendomi la possibilità di un appuntamento. Mi aveva pregato di andare io da loro. Ovviamente ho acconsentito, la casa può essere un minimo riparo di fronte ad una crudele tempesta. L’incontro però è avvenuto non a casa ma nella sua azienda. E c’è solo il Padre. Ho chiesto della Moglie e degli altri Figli, ma lui ha tagliato corto dicendo che queste questioni le gestisce lui in completa autonomia. Come per il lavoro. Ho pensato che “queste questioni” in realtà dovrebbero coinvolgere tutti. E che non è “come per il lavoro”. Ma sono stato zitto.
L’incidente è avvenuto appena il giorno prima, ancora non c’è stato il funerale. Non ha troppo tempo, ma ha voluto vedermi subito per capire, per comprendere, per farsi un’idea, per analizzare la situazione. Mi ha incalzato subito sul danno morale, sul lucro cessante, sui danni in genere. E’ stato molto strano, di solito proprio nel caso di morte di un figlio, i genitori accantonano questi aspetti, parlano del figlio (tanto del figlio scomparso) o esprimono la rabbia contro chi ha provocato la morte; reclamano giustizia, a volte vendetta. Ma non si parla quasi mai di risarcimento e soprattutto di soldi. Ci siamo lasciati con l’impegno di ritrovarci.
Ora al telefono di nuovo mi sollecita sul risarcimento ed insiste sul fatto che dobbiamo (utilizza proprio il plurale) pretendere il massimo, non dare l’idea di accontentarci. Così fa lui per ottenere un lavoro per la sua azienda. E continuo a sentire quel rumore ritmico di sottofondo. Allude al fatto che non ci sarebbero problemi a far figurare il figlio morto già impiegato nell’azienda, criticando così la mia intenzione di rappresentare solo la realtà e la prospettiva di inserimento futuro. In questo modo -secondo la sua idea- si parte già male e si è molto più deboli. Sento ancora quel rumore. Si lamenta della mia prospettiva di risarcimento -a suo dire- troppo bassa, che si è informato con altri avvocati e che molti gli hanno assicurato di quantificare un danno maggiore. Tento di spiegare che la quantificazione del danno deve attenersi a criteri stabiliti e che non è consentito esprimere cifre in libertà. Ma inutilmente. E sento sempre quel rumore.
Alla sorpresa per quel colloquio inatteso si sta sostituendo un vero e proprio imbarazzo per quello che sento. Più che con il padre mi pare di star trattando con l’imprenditore. E poi c’è sempre quel rumore meccanico che sento in sottofondo, ripetitivo, che si rafforza quando si parla di cifre. Non lo riesco a decifrare.
Poi all’improvviso comprendo, è il suono di una calcolatrice.
Mentre parlo, lui somma le cifre, le compare, valuta i margini, ottimizza i profitti. Come un perfetto contabile. Decido che devo chiudere velocemente. Ed è lui a darmene subito l’occasione, chiedendomi del mio onorario, da lui definito un costo dell’operazione. Da imprenditore ad imprenditore -proprio così inizia la sua domanda- mi chiede se è proprio necessario conteggiare l’iva. “Sì è proprio necessario” rispondo io seccamente. E lo saluto velocemente, accampando la scusa di un cliente in attesa. Ci lasciamo. Ci risentiremo.
Non si è fatto più vivo.