C.S. Lewis, l’immaginifico inventore del mondo di Narnia, scrive un libretto denso e duro sulla morte della moglie (l’inizio di quell’amore tardivo è magistralmente tratteggiato nello stupendo film di Richard Attenborough Un viaggio in Inghilterra). Il libro andrebbe imparato a memoria da tutti quei liquidatori e/o colleghi, che ho incontrato nella mia vita professionale, che hanno cercato di banalizzare il dolore per la perdita di un proprio caro, soprattutto affermando che è una condizione solo momentanea, che il tempo aggiusterà ogni cosa.
Appunto, è qui l’errore più grande, commesso da chi forse si accosta alla sofferenza altrui senza grande rispetto o umiltà. Lasciamo allora la parola al grande scrittore che appuntava nel suo taccuino:
“Stanotte si sono riaperti gli abissi infernali del dolore, fresco come nei primi tempi: le parole folli, le proteste rabbiose, i sobbalzi dello stomaco, l’irrealtà da incubo, l’orgia di lacrime. Perché nulla resta “giù”, nel dolore. Si è appena emersi da una fase, che ci ritrova al punto di partenza. E poi ancora, e ancora. Tutto si ripete. E’ un girare in tondo, il mio, oppure oso augurarmi che sia una spirale? Ma se è una spirale, sto salendo o scendendo? Quante volte (sarà per sempre?) dovrò contemplare sbigottito questo vuoto immenso come se lo vedessi per la prima volta, quante volte dovrò dire “Solo adesso capisco ciò che ho perduto?”. La gamba viene amputata una, dieci, cento volte. E sempre uguale ritorna il primo morso del coltello nella carne. Dicono: “il codardo muore molte volte”. Anche la persona amata. L’aquila di Prometeo non trovava a ogni pasto un fegato nuovo da straziare”