L’accertamento della responsabilità, per i danni derivanti dal randagismo, presuppone in primo luogo l’individuazione dell’ente, cui le leggi nazionali e regionali affidano in generale il compito di controllo e gestione di questo fenomeno. Ai fini dell’individuazione dell’ente su cui grava l’obbligo giuridico di recupero, cattura e ricovero dei cani randagi – stante la “neutralità”, al riguardo, della legge statale -occorre analizzare la normativa primaria (sostanzialmente regionale) caso per caso.
Si deve poi affermare che a tale ipotesi non è applicabile la regola di cui all’art. 2052 c.c., in tema di fauna selvatica protetta, in considerazione della natura stessa di detti animali randagi e dell’impossibilità di ritenere sussistente un rapporto di proprietà o di uso in relazione ad essi, da parte dei soggetti della pubblica amministrazione preposti alla gestione del fenomeno del randagismo.
La Corte di Cassazione (cfr. sentenza n. 5339 del 28.2.24) precisa che non è sufficiente individuare la normativa che individui l’ente incaricato “occorrendo che chi si assume danneggiato, in base alle regole generali, alleghi e dimostri il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e la riconducibilità dell’evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria, in base ai principi sulla causalità omissiva“. Ed invero l’applicazione dell’art. 2043 c.c. impone che la responsabilità dell’ente si affermi “solo previa individuazione del concreto comportamento colposo ad esso ascrivibile e cioè che gli siano imputabili condotte, a seconda dei casi, genericamente o specificamente colpose che abbiano reso possibile il verificarsi dell’evento dannoso“.
Entro questo perimetro va quindi verificato il tipo di comportamento esigibile volta per volta e in concreto dall’ente preposto dalla legge al controllo e alla gestione del fenomeno del randagismo, così da dedurne la eventuale responsabilità sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest’ultima individuata secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l’alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo.
A tale riguardo la Corte precisa che “non basta che un evento sia prevedibile per imputarne il verificarsi a titolo di colpa a chi ha un obbligo di controllo, occorrendo anche che esso sia evitabile, in considerazione delle circostanze soggettive e oggettive del caso concreto. Ne deriva che è onere di colui che agisca facendo valere la responsabilità omissiva altrui quello di dimostrare o almeno di allegare la ricorrenza di una colpa non solo specifica – violazione del precetto – ma anche generica, in quanto postulante l’indagine circa le modalità concrete della condotta attraverso i criteri di prevedibilità ed evitabilità“.
Ed invero se bastasse, per invocarne la responsabilità, l’individuazione dell’ente preposto alla cattura dei randagi, la fattispecie cesserebbe di essere regolata dall’art. 2043 c.c. e finirebbe per essere del tutto disancorata dalla colpa, rendendo la responsabilità dell’ente una responsabilità sottoposta a principi analoghi se non addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053.
Per raggiungere la prova dell’evitabilità (essendo la prevedibilità -per esempio di improvvisi e pericolosi attraversamenti di una strada- abbastanza scontata) il il danneggiato dovrà provare -anche per presunzione- che era stata già segnalata all’ente la presenza abituale di animali randagi nel luogo dell’incidente ovvero che vi fossero state nella zona richieste d’intervento dei servizi di cattura e di ricovero. Rimane a carico del soggetto, tenuto per legge alla predisposizione di un servizio di recupero di cani randagi, provare di essersi attivato rispetto all’onere cautelare previsto dalla normativa regionale.