La Corte di Cassazione (con la sentenza del 18 febbraio 2025 n. 4257) ribadisce alcuni concetti fondamentali in ordine al calcolo degli interessi e della rivalutazione monetaria in tema di crediti risarcitori. Ed invero afferma che: “il credito avente ad oggetto il risarcimento del danno aquiliano costituisce obbligazione di valore determinata con riferimento ad un bene oggetto di misurazione da parte del giudice mediante la liquidazione per equivalente (quando richiesta) da effettuare in base all’art. 1223 cod. civ.. Norma, quest’ultima, prevedente che il risarcimento deve comprendere tanto la perdita subita, quanto il mancato guadagno, ricollocando il creditore sulla stessa curva di indifferenza, in cui si sarebbe trovato se l’illecito non si fosse verificato. Ciò vale sul piano generale del sistema del risarcimento del danno modellato sul paradigma di quello patrimoniale, mentre il risarcimento del danno non patrimoniale assomma una pluralità di funzioni (v. Cass., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601), non limitate al solo profilo compensativo, posto che non esistendo un perfetto surrogato di mercato rispetto alla lesione di beni non patrimoniali, per un soggetto non è pienamente indifferente conservare la relazione parentale (come nel caso in esame) o ricevere un equivalente monetario, frutto di una stima convenzionale in quanto idonea ad attribuire utilità pecuniarie in grado di alleviare la perdita subìta.
Come da tempo stabilito da questa Corte (v. segnatamente Cass. 24 gennaio 2020, n. 1637; 31 ottobre 2017, n. 25817; 20 aprile 2017, n. 9950. Più di recente Cass. 7 agosto 2023, n. 23927; 18 maggio 2022, n. 16027) “il ritardato adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno impone al debitore di: (a) pagare al creditore l’equivalente monetario del bene perduto, espresso in moneta dell’epoca della liquidazione, il che si ottiene con la rivalutazione del credito, salvo che il giudice ovviamente non scelga di liquidare il danno in moneta attuale; (b) pagare al creditore il lucro cessante finanziario, ovvero i frutti che il denaro dovutogli a titolo di risarcimento sin dal giorno del sinistro avrebbe prodotto, in caso di tempestivo pagamento; e questo danno si può liquidare anche (ma non solo) applicando un saggio di interessi equitativamente scelto dal giudice sul credito risarcitorio rivalutato anno per anno (Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17 febbraio 1995)… Queste regole ovviamente debbono trovare applicazione sia quando il debitore adempia la propria obbligazione uno actu, sia quando, prima della liquidazione definitiva, abbia versato degli acconti. In quest’ultimo caso, la soluzione del problema pratico concernente i criteri di defalco degli acconti dal credito risarcitorio va individuata alla luce della ratio della soluzione adottata da Sez. un. 1712/95… Tale ratio consiste in ciò: che la liquidazione del danno da mora nelle obbligazioni di valore deve, per così dire, “simulare” il vantaggio che il creditore avrebbe potuto ricavare dall’investimento della somma a lui dovuta, se gli fosse stata tempestivamente pagata. È dunque evidente che, nel caso di pagamenti in acconto, il creditore: (a) nel periodo compreso tra il danno e il pagamento dell’acconto, a causa della mora ha perduto la possibilità di investire e far fruttare l’intero capitale dovutogli: e dunque il danno da mora deve, per questo periodo, replicare il lucro che gli avrebbe garantito l’investimento dell’intero capitale; (b) dopo il pagamento del (primo) acconto, e per effetto di quest’ultimo, il creditore non può più dolersi di avere perduto i frutti finanziari teoricamente derivanti dall’investimento dell’intero capitale dovutogli; dopo il pagamento dell’acconto, infatti, il lucro cessante del creditore si riduce alla perduta possibilità di investire e far fruttare il capitale che residua, dopo il pagamento dell’acconto” (v., Cass. 1637/2020 cit.).
Con riferimento al caso di pagamento di acconti, è stato altresì riconosciuto da questa Corte, che tale pagamento deve essere sottratto dal credito risarcitorio attraverso le seguenti operazioni: “(a) rendere omogenei il credito risarcitorio e l’acconto (devalutandoli entrambi alla data dell’illecito, ovvero rivalutandoli entrambi alla data della liquidazione); (b) detrarre l’acconto dal credito; (c) calcolare gli interessi compensativi applicando un saggio scelto in via equitativa: (c’) sull’intero capitale rivalutato anno per anno, per il periodo che va dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto; (c”) sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto (anche in questo caso rivalutata anno per anno), per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva” (v., ancora, Cass. 1637/2020 cit)“.
La Corte d’Appello di Bologna nella sentenza impugnata non ha fatto applicazione dei principi suddetti, poiché: a. ha operato lo scomputo degli acconti dal complesso del capitale liquidato e non dall’importo risultante una volta operata la riduzione di 1/3 per effetto dell’apporto concausale della vittima; b. al fine del calcolo della mora debendi, pur richiamando Cass., sez. un., 1712/1995, non ha provveduto alla comparazione di valori omogenei. Statuendo nei termini indicati la Corte d’Appello, da un lato, ha attribuito agli appellanti a titolo di capitale un importo maggiore rispetto al dovuto, dall’altro, non ha considerato la mora già maturata a favore dei creditori tra la data del sinistro e quella di pagamento del primo acconto, e poi della ulteriore mora maturata sul capitale residuo (detratto il primo acconto) tra la data di pagamento del primo acconto e quella di pagamento del secondo, così alterando il calcolo della mora debendi.