Caso Diciotti: le Sezioni Unite della Corte di Cassazione riconoscono la responsabilità del Governo e lo condannano al risarcimento del danno non patrimoniale (sofferenza morale)

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Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 76 del 6 marzo 2025) convalidano il recente percorso giurisprudenziale, in tema di danno non patrimoniale, ed in particolare del danno morale e dello specifico suo regime probatorio. La decisione ha per oggetto la nota vicenda del trattenimento di quasi duecento migranti sulla nave militare Diciotti nel dicembre 2018. Al di là delle ricadute politiche (nell’infuocato odierno confronto sulla questione giustizia e dei complicati rapporti tra politica e magistratura), la decisione si apprezza per l’affermazione della responsabilità civile della condotta della P.A. (in questo caso il Governo) all’origine della vicenda.

Le Sezioni Unite affermano infatti che: “perché un evento dannoso sia imputabile a responsabilità della p.a., tale imputazione non potrà avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa, che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana. La sussistenza di tale elemento sarà riferita non al funzionario agente, ma alla p.a. come apparato, e sarà configurabile qualora l’atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa, e che il giudice ordinario ha il potere di valutare, in quanto limiti esterni alla discrezionalità amministrativa. Sia pure con riferimento non al singolo funzionario, ma alla p.a. come apparato, e quindi come unità (quanto meno nei singoli settori), va valutata la colpa, nei termini sopradetti. Non si può, dunque, in linea di principio, escludere la rilevanza dell’errore scusabile commesso dalla P.A.. L’accento deve essere spostato sulla scusabilità dell’errore nei casi singoli. E su questo versante non è dubbio che l’errore nell’interpretazione della legge possa essere considerato, eccezionalmente, scusabile solo se riconducibile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata (Cass. n. 5361 del 1984) o altrimenti inevitabile a stregua delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale (sent. n. 364 del 1988 e altre), operando, in ogni altro caso, la regola della inescusabilità dell’error iuris (Cass. n. 12839 del 1992; n. 2762 del 1978). Elemento essenziale per la sussistenza dell’errore scusabile è, quindi, l’inevitabilità dello stesso, determinata da cause oggettive, estranee all’agente, che finisce per escludere la colpevolezza, intesa quale forma di qualificazione dell’azione soggettiva nelle fattispecie di responsabilità. L’errore scusabile rende, pertanto, inesigibile una diversa condotta, dando rilievo sia pure nell’ambito del solo elemento psicologico, alla cosiddetta inesigibilità, che pur avendo una natura oggettiva e non essendo prevista nel nostro ordinamento, ma in quello tedesco, trova, nell’ambito della rilevanza dell’elemento psicologico, un primo riconoscimento nella sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale in tema di errore inevitabile su legge penale. Trattandosi di valutazione della scusabilità dell’errore, essa non può che essere effettuata ex ante, cioè ponendosi nella stessa posizione in cui si trovava il soggetto agente, allorché incorse in errore.
L’accertamento dell’esistenza dell’errore scusabile, costituendo un accertamento fattuale, rientra nella competenza esclusiva del giudice di merito ed è incensurabile in Cassazione, se adeguatamente motivato
(Cass. n. 2424 del 2004) Tale valutazione tanto più deve essere rigorosa ove si tratti come nella specie di condotte lesive di diritti inviolabili della persona, presidiate da norme di rango superprimario e di diritto internazionale
“.

Su tale piano il Collegio ritiene che: “la valutazione della Corte di merito del tutto inadeguata e contraddittoria, tanto da potersi dire meramente apparente. Il riferimento alla «complessità e non univocità della normativa di riferimento» e alla «indeterminatezza normativa, oltre che fattuale, in ordine al riparto delle competenze nell’ambito della generale attività SAR nel Mediterraneo» si appalesa giustificazione, da un lato,
intrinsecamente debole, dal momento che il quadro delle norme convenzionali di riferimento, come sopra riassunto, appare al contrario sufficientemente chiaro, in particolare nell’evidenziare le responsabilità
dello «Stato di primo contatto» anche in caso di rifiuto dello Stato competente secondo la zona SAR, come peraltro contraddittoriamente rimarcato anche nella sentenza impugnata. In ogni caso, esso si rivela non esaustivo in relazione alla diversa prospettiva di riferimento, rappresentata alle norme, costituzionali e
sovranazionali, a tutela del fondamentale diritto della libertà personale. In altra parte della motivazione (pag. 7), sebbene ad altri fini discorsivi (sindacabilità della condotta in quanto atto amministrativo, non politico), la Corte capitolina osserva -correttamente- che «la condotta del Ministero dell’Interno, nella persona del ministro p.t, ha inciso direttamente e immediatamente sulla sfera giuridica dei ricorrenti comportando la lesione di diritti fondamentali, costituzionalmente tutelati» e che «il potere in concreto esercitato, ancorché ampiamente discrezionale, è sottoposto a vincoli normativi (anche sotto il profilo procedimentale) a fronte dei quali vengono in rilievo situazioni giuridiche individuali in astratto meritevoli di tutela giurisdizionale». Afferma inoltre che «la procedura per la designazione del POS – di competenza del Dipartimento delle Libertà Civili e per l’Immigrazione, che costituisce articolazione del Ministero dell’Interno è un atto amministrativo endoprocedimentale vincolato nell’an e discrezionale nel quomodo, inerente all’individuazione del punto di sbarco più opportuno sul territorio nazionale. In tale scelta intervengono valutazioni tecniche in ordine al luogo in ragione al numero di migranti da assistere, al sesso, alle condizioni psicofisiche, alla necessità di garantire una struttura di accoglienza e alle cure mediche appropriate dopo lo sbarco. Le valutazioni politiche connesse al controllo dei flussi migratori – che, nel caso di specie, si sono sostanziate nel differimento dello sbarco al fine di attendere la definizione in sede europea sul “caso Diciotti” – sono da ritenersi estranee alla menzionata procedura amministrativa». Ebbene, tali corrette considerazioni risultano contraddittoriamente neglette al momento di passare al vaglio dei presupposti della dedotta responsabilità da illecito aquiliano. È frutto di una erronea impostazione qualificatoria l’affermazione che le norme internazionali non fondano un diritto allo sbarco, atteso che non si trattava di valutare se tali norme fondassero oppure no un tale diritto, quanto al contrario di valutare se, con quali presupposti e in che limiti tali norme autorizzassero il trattenimento dei migranti a bordo della unità dell’amministrazione statale che li aveva soccorsi. Come evidenziato in sentenza ciò che si deduce a fondamento della domanda è la lesione del diritto («inviolabile») alla libertà personale ex art. 13 Cost., cagionata a causa dell’illegittimo trattenimento a bordo della nave “U. Diciotti”; gli appellanti lamentano di essere stati trattenuti dapprima sulla nave militare italiana (dal 16 al 20 agosto
2018) nonché successivamente nel porto di Catania (dal 20 al 25 agosto) senza autorizzazione allo sbarco, chiedendo conseguentemente il risarcimento dei danni patiti
. In questa diversa prospettiva appare evidente che non può risultare sufficiente ragione di scriminazione della condotta, sotto il profilo della colpa, l’incertezza normativa in ordine alla individuazione dello Stato competente, né la pure consentita flessibilità sulle determinazioni da adottare al momento di individuare il POS e autorizzare allo sbarco, non potendo tale flessibilità comunque risultare esente da ragionevoli limiti temporali senza altrimenti tradursi di fatto in una misura restrittiva della libertà personale, intollerabile per l’ordinamento costituzionale e sovranazionale. È la stessa Corte di merito a evidenziare che se da un lato le linee guida IMO (International Maritime Organization) del 2004 (che regolano la questione dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo), al par. 2.6 «attribuiscono al Governo responsabile la flessibilità necessaria per affrontare ogni situazione caso per caso», dall’altro, al par. 2.5, stabiliscono che «in every case a place of safety is provided within a reasonable time», facendo espresso riferimento al fatto che la procedura deve necessariamente essere conclusa entro un termine ragionevole“.

Le Sezioni Unite ritengono che, proprio sotto tale profilo: “la valutazione di merito appare monca, non avendo la Corte territoriale in alcun modo valutato se, al netto della discrezionalità attribuita alla P.A. e della flessibilità delle procedure di sbarco, potesse considerarsi comunque ragionevole il forzato trattenimento a bordo della nave (dapprima per effetto del mancato consenso all’attracco in un porto italiano e quindi per il mancato consenso allo sbarco, una volta attraccata la nave al porto di Catania) protratto per dieci giorni, anche in considerazione delle condizioni logistiche legate alle caratteristiche della nave stessa, al numero degli occupanti, alle condizioni di salute degli stessi, alle fasi pregresse della loro drammatica esperienza, alle condizioni climatiche. Non possono non considerarsi pienamente valide e pertinenti anche nello scrutinio del caso in esame le considerazioni di Corte Cost. n. 105 del 2021, là dove si stigmatizza — sebbene nella diversa ma contigua ipotesi del trattenimento illegittimo — «quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale. Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani“.

Sempre, sotto il profilo della colpa attribuibile all’amministrazione come apparato, la sentenza procede a valutare, rilevandone la mancanza nella decisione di merito: “se potesse considerarsi oppure no ascrivibile a criteri di normale prudenza e diligenza, specie in considerazione della natura dei diritti in gioco, il convincimento della tollerabilità di un tale prolungamento del trattenimento dei migranti soccorsi a bordo della nave. Non può condurre a diversa conclusione il fatto che, nel caso della nave Diciotti, con un voto del 20 marzo 1989, il Senato della Repubblica abbia negato l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell’Interno (Sen. Matteo Salvini) richiesta dal Tribunale dei Ministri di Catania per il reato di sequestro di persona pluriaggravato (art. 605, commi primo, secondo, n. 2, e terzo, c.p.), segnatamente
«per avere, nella sua qualità di Ministro dell’Interno, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità giunti al porto di Catania a bordo dell’unità navale di soccorso U. Diciotti della Guardia Costiera Italiana alle 23:49 del 20 agosto 2018 […]. Fatto aggravato dall’essere stato commesso da un pubblico ufficiale e con abusato dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età». La Corte d’appello ha già escluso la rilevanza di tale delibera ai fini
della decisione sulla pretesa risarcitoria, poi comunque respinta, come detto, per altri motivi. Tale affermazione non è investita da specifica censura da parte dei ricorrenti incidentali, ma nondimeno la questione va affrontata anche in questa sede dovendosi escludere che sul punto, data la pronuncia di rigetto, possa dirsi formato giudicato interno. Non appare condivisibile sul punto la motivazione addotta dalla Corte territoriale, basata sul rilievo che, nella specie, «non è tanto in contestazione il personale operato del Ministro … quanto la condotta complessivamente imputabile alle Autorità italiane della quale, in virtù del rapporto di immedesimazione organica, è chiamato a rispondere anche il Ministero dell’Interno».
La corretta impostazione della questione esige invero che ci si interroghi sulla natura giuridica del diniego di autorizzazione a procedere e in particolare se la insindacabilità della condotta che esso determina sul piano penale si riverberi anche sulla configurabilità dell’illecito civile, nel senso di escluderla. In tale secondo caso, infatti, non residuerebbe spazio per separare la responsabilità civile del Ministro da quella dell’amministrazione come apparato, posto che è dalla decisione del primo di negare il POS e l’autorizzazione allo sbarco che è derivato il trattenimento a bordo della nave costiera indicato come lesivo della libertà personale.
Ebbene, l’indagine al riguardo deve muovere dalla considerazione che la legge cost. n. 1 del 1989 è evidentemente diretta a garantire la funzione governativa attribuendo al Parlamento il potere di sottrarre
alla giurisdizione penale ordinaria determinate condotte nei casi previsti dall’art. 9, comma 3 («interesse dello Stato costituzionalmente rilevante» o «perseguimento di un preminente interesse pubblico
nell’esercizio della funzione di Governo»). L’autorizzazione della camera di appartenenza, secondo le norme stabilite con legge costituzionale, è prevista dall’art. 96 Cost., come modificato dall’art. 1 l. cost. cit., solo per i «reati» commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni, anche se cessati dalla carica. Le norme di dettaglio regolano la procedura in una prospettiva esclusivamente penalistica. È vero che, come è stato obiettato in dottrina, una interpretazione della norma costituzionale che riconosca all’«insindacabile» voto parlamentare ricognitivo di un «interesse costituzionalmente rilevante» o del «preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo» rilevanza impeditiva rispetto alla sola giurisdizione penale escludendo invece ogni rilievo sul piano civilistico potrebbe apparire non conforme a razionalità del sistema. Nondimeno, il rilievo riflesso che il diniego dell’autorizzazione può piegare sul piano civilistico non può che declinarsi sul piano della valutazione della ingiustizia del danno (fondamento della responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ.) secondo un criterio di bilanciamento tra gli opposti interessi (quello dell’interesse pubblico sottostante alla condotta e quello individuale che ne risulta leso) ed è dunque comunque destinata ad annullarsi ove la lesione attinga, come nella specie, diritti della persona inviolabili e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso. Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale ─ non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale
.

Le Sezioni Unite riconoscono poi la sussistenza del danno non patrimoniale reclamato dai migranti. A tale proposito rilevano che: “secondo pluridecennale ed ormai pacifica acquisizione (v. Cass. Sez. U. 11/01/2008, nn. 576, 582, 581, 582, 584; Id. 11/11/2008, nn. 26972 – 26975; ma v. già Cass. 15/10/1999, n. 11629 e, in seguito, Cass. 21/07/2011, n. 15991; v. anche Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372), ad essere risarcibile non è la lesione dell’interesse giuridicamente protetto (danno-evento o evento di danno) ma il danno-conseguenza, vale a dire i pregiudizi derivanti secondo nesso di causalità giuridica (artt. 1223 e 2056 cod. civ.) dalla lesione stessa, da allegare e provare da parte del danneggiato. Nel caso del danno non patrimoniale da lesione dei diritti inviolabili della persona quel che rileva ai fini risarcitori non è la lesione in sé del diritto ma le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, nella «doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell’essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza» (Cass. 17/01/2018, n. 901). È anche vero però che tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti. In particolare, in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta. Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato. In tali casi ad un puntuale onere di allegazione – la cui latitudine riflette la complessità e multiformità delle concrete alterazioni in cui può esteriorizzarsi il danno non patrimoniale che, a sua volta, deriva dall’ampiezza contenutistica dei diritti della persona investiti dalla lesione ingiusta – non corrisponde, pertanto, un onere probatorio parimenti ampio. Come è stato condivisibilmente rimarcato (v. in motivazione Cass. 10/11/2020, n. 25164), «esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione – sovente ricorrendosi, a tal fine, alla categoria del fatto notorio per indicare il presupposto di tale ragionamento inferenziale, mentre il riferimento più corretto ha riferimento alle massime di esperienza (i fatti notori essendo circostanze storiche concrete ed inoppugnabili, non soggette a prova e pertanto sottratte all’onere di allegazione). La massima di esperienza, difatti, non opera sul terreno dell’accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione, volta che la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante. Tanto premesso, non solo non si ravvisano ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio fondato sulla massima di esperienza specie nella materia del danno non patrimoniale, e segnatamente in tema di danno morale, ma tale strumento di giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta, nell’impossibilità di provare il pregiudizio dell’essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d’animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito». L’affermazione della Corte circa la mancanza di allegazione e prova del danno, non dando conto di tali margini di valutazione, appare pertanto applicare un paradigma in contrasto da quello dettato dal ricordato principio”.

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Avvocato Massimo Palisi - Padova

Nato a Catanzaro in data 24 aprile 1969, consegue la maturità classica (voto 60/60) e la laurea in giurisprudenza presso l’Università di Padova (voto 105/110). Viene eletto per il biennio 1992/94 Segretario Nazionale della Fuci (Federazione Universitaria Cattolici Italiani).

Avvocato dal 1999, Cassazionista dal 2016, svolge la propria attività a livello nazionale, operando nell’ambito del diritto sostanziale e processuale civile, con particolare elezione per le tematiche relative alla responsabilità civile (sia in ambito contrattuale che extracontrattuale), alla tutela della persona e dei consumatori in generale (e sotto il profilo risarcitorio in particolare), al diritto del lavoro, al diritto delle assicurazione. Svolge inoltre assistenza a favore delle vittime nell’ambito delle procedure penali.

Ha deciso di non essere fiduciario di alcuna compagnia di assicurazione e/o banche, per non intaccare la propria opera di tutela nei confronti dei danneggiati e dei consumatori.

Ha collaborato, nel primo decennio del 2000, con Cittadinanzattiva Onlus, risultando membro: a) del gruppo studio “Assicurazioni ” del CNCU, istituito presso il Ministero delle Attività Produttive; b) del collegio del Nord Italia dei conciliatori istituito presso il gruppo Banca Intesa, c) del gruppo di studio istituito presso l’ANIA per l’emanazione del nuovo Codice delle Assicurazioni. Ha svolto corsi seminariali in tema assicurativo a livello nazionale, promossi e patrocinati dal Ministero delle Attività Produttive.

È stato relatore in diversi convegni giuridici di carattere nazionale.

Avvocato Evenlina Piraino - Padova

Nata a Cosenza in data 29 settembre 1981, consegue il diploma di maturità al liceo scientifico (voto 100/100) e si laurea nel 2006, presso l’Università di Cosenza (UNICAL), in giurisprudenza (voto 108/110) discutendo una tesi nell’ambito del diritto del lavoro (“Il nuovo sistema di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali: Decreto Legislativo n. 38/2000′) e del diritto assicurativo (“Il sistema assicurativo sociale in ambito europeo”).

È avvocato dal 2009; fa parte dello studio dal 2013. Si occupa prevalentemente di diritto civile, sostanziale e processuale, diritto del lavoro, diritto di famiglia, procedure stragiudiziali e di mediazione. Nell’ambito della materia di elezione dello studio legale, si interessa in particolare degli istituti di responsabilità civile speciale, di quello di natura professionale, oltre alla tutela degli animali e dell’ambiente, a vantaggio del quale svolge anche attività di volontariato sociale.

È attiva nell’ambito del diritto di famiglia e della tutela dei minori, nonché della tutela dei diritti della persona in generale, dei consumatori e della proprietà intellettuale.

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