La sentenza emessa in data 4 settembre 2025 n. 24545 dalla Corte di Cassazione ha per oggetto il risarcimento del danno patrimoniale, sotto la specie del lucro cessante. In particolare la ricorrente censurava la statuizione con cui la Corte di merito aveva confermato la decisione del Tribunale in ordine alla base del calcolo del danno da lucro cessante subito per la morte del marito durante una discesa di pista di sci. Tale base di calcolo era stata indicata nella metà dell’accertato reddito annuo della vittima, moltiplicata per sole tre annualità, sui presupposti che: a) che la presumibile residua vita lavorativa della vittima sarebbe stata contenuta nei tre anni successivi all’incidente (poiché “da quanto riferito dalla moglie sulla propensione ai viaggi della coppia e in assenza di figli… sembra più probabile che… avrebbe preferito dedicarsi ai suoi numerosi interessi“; b) la vedova non aveva allegato né provato la reale situazione contributiva del marito, né fornito elementi di prova al fine di supportare le argomentazioni svolte in ordine alla pensione che egli avrebbe in futuro percepito e condiviso; c) che, infine, non era stata “mai stata dedotta, né tantomeno provata la propensione al risparmio” di lui, al fine di legittimare eventuali aspettative ereditarie.
Secondo il Collegio: “tale motivazione – al di là del rilievo circa le numerose allegazioni in senso contrario formulate in entrambi i gradi di merito dalla parte ricorrente e supportate da numerosi elementi documentali non considerati (dal che emerge anche l’ulteriore vizio di omesso esame) – si pone ex se, alla stregua del suo stesso tenore testuale, al di sotto del minimo costituzionale, sia nella parte in cui ha individuato il fondamento della presunzione della durata triennale della residua vita lavorativa della vittima in “quanto riferito dalla moglie sulla propensione ai viaggi della coppia e in assenza di figli ai quali eventualmente provvedere o per i quali proseguire e mantenere l’attività imprenditoriale” e nella conseguente maggiore probabilità che il de cuius “avrebbe preferito dedicarsi ai suoi numerosi interessi”; sia nella parte in cui ha escluso la prova del diritto alla pensione del suddetto sulla base della mancata allegazione della sua “situazione contributiva”, omettendo, invece, di considerare che erano stati accertati con efficacia di giudicato tanto la situazione professionale quanto l’ammontare del reddito percepito; sia, ancora, nella parte in cui, a fronte dell’allegata circostanza che la vittima destinasse alla famiglia metà dei proventi della sua attività imprenditoriale, ha inopinatamente ritenuto che la moglie superstite – tra l’altro in mancanza di figli e quindi destinata naturaliter ad essere l’unico erede del marito -, non potesse vantare alcuna aspettativa ereditaria, sul rilievo che non sarebbe stata “mai stata dedotta, né tantomeno provata la propensione al risparmio” del de cuius“.
Si tratta -secondo la Corte di Cassazione- di una motivazione: “evidentemente apodittica, illogica e assertiva, che non tiene conto, oltre delle circostanze di fatto allegate e non contestate, persino di quelle positivamente accertate, come il quantum del reddito annuo, sul quale avrebbe dovuto fondarsi la valutazione equitativa del danno futuro in relazione agli apporti patrimoniali che sarebbero presumibilmente derivati dalla pensione percepita dal marito e a quelli che le sarebbero stati attribuiti in via ereditaria“