La Corte di Cassazione (sentenza del 22 settembre 2025 n. 25811) ritiene fondato il motivo del ricorso che aveva dedotto che l’errore sanitario era riconducibile al 20 ottobre 2004, mentre la prima richiesta di risarcimento danni avanzata dai genitori in proprio risaliva al 9 gennaio 2012, impugnando la sentenza nella parte in cui avrebbe erroneamente accertato in “7 anni e mezzo” il termine prescrizionale applicabile alla fattispecie concreta.
Ed invero il Collegio rileva che: “quanto al calcolo del termine di prescrizione previsto per il reato di cui all’art. 590 c.p., in astratto ascrivibile ai medici intervenuti (lesioni colpose gravissime), la Corte d’Appello ha confermato il più lungo termine di cui all’art. 157 c.p. sull’ erroneo assunto che, anche nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla legge Cirielli n. 251 del 2005, valevole ratione temporis in base alla data di commissione del fatto, esso era pari a 7 anni e mezzo. Tuttavia, il termine era da calcolarsi in relazione alla normativa penale pro tempore in base alla quale il reato di lesioni gravissime colpose di cui all’art. 590 c.p. era punito sino a due anni di reclusione, il termine di prescrizione ex artt. 157 era di 5 anni; mentre con l’aumento di 1/2 ex art. 160-161 c.p. derivante dall’interruzione “penale” risultava, in base alla legge applicabile al tempo del commesso reato, pari a sette anni e mezzo, come indicato dalla Corte d’Appello. La sentenza impugnata, invero, riferendosi alla fattispecie penale di riferimento, ha fatto errata applicazione di un sedimentato principio giurisprudenziale per cui il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, astrattamente qualificabile come reato, si prescrive nello stesso termine previsto per la fattispecie incriminatrice speciale se per quest’ultima è stabilito un termine di prescrizione superiore a cinque anni oppure in cinque anni e non assumono rilievo eventuali cause d’interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato, attesa la diversità ontologica esistente tra l’illecito civile e quello penale (SS. UU., sentenza n. 1479/1997).
La Corte d’Appello, pur avendo correttamente ricondotto la fattispecie nell’alveo dell’art. 2947, n. 3, c.c., ispirato dal favor per la vittima, non ha tuttavia considerato che alla data del fatto illecito costituente reato, il termine di prescrizione corrispondeva a quello civilistico (cinque anni), non potendosi includere l’aumento dovuto per il fatto interruttivo previsto nell’azione esercitata in sede penale ex art. 160 c.p., secondo quanto stabilito dalla pronuncia delle sezioni unite e, da ultimo, tra le tante, anche da Cass. n. 9883/2023.
La prescrizione del diritto al risarcimento del danno cagionato dal reato, sebbene si debba raccordare, sotto il circoscritto profilo del periodo di durata, alla disciplina della prescrizione dettata per il reato, si inserisce nel quadro generale dell’istituto della prescrizione civile, senza comprometterne la sostanziale autonomia rispetto all’analogo istituto regolato nel sistema penale. Se si eccettua tale collegamento, ciascuno dei due istituti costituisce un complesso normativo in sé chiuso e perfetto, con la conseguenza che, ai fini del diritto al risarcimento, operano esclusivamente le cause di interruzione previste nella disciplina civilistica, senza possibilità di mutua integrazione o di interferenze fra le due discipline. Ove, poi, si potesse prescindere dal computo dei termini di prescrizione sulla base della pena edittale stabilita per il reato (costituente, nel contempo, titolo per il risarcimento) e dare rilievo, invece, ai sopravvenuti atti interruttivi di cui all’ art. 160 c.p., non si avrebbe un unico termine di prescrizione, ma una variabile molteplicità di termini per un solo tipo di reato, a seconda delle diverse vicende processuali verificatesi, in relazione a ciascun caso pratico, in sede penale (cfr. Cass. SU n. 1479/1997, citata). Del resto, l’incompleta parificazione dei termini di prescrizione dell’azione civile e di quella penale è ammessa anche dalla relazione ministeriale al codice civile e trova ulteriore conforto nel vigente codice di procedura penale, che ha dettato una disciplina volta ad accentuare l’autonomia del processo civile da quello penale“