Fin dal primo giudizio di merito, i convenuti avevano chiesto che si accertasse un ulteriore concorso di colpa dei genitori della vittima per culpa in educando e in vigilando. La Corte di Appello, e prima ancora il Tribunale, ha escluso la legittimità di tale ipotesi, ritenendo che il concorso di colpa del danneggiato andasse valutato oggettivamente, a prescindere non solo dagli stati soggettivi (il minorenne andava equiparato ad un maggiorenne, quanto a capacità di intendere e volere) ma anche dalla vigilanza da parte dei genitori – e dunque dalla responsabilità di terzi – per l’omesso controllo della vittima, diciassettenne all’epoca dei fatti. È stata conseguentemente operata una riduzione del risarcimento riconosciuto ai genitori della vittima iure proprio, ex art. 1227 c.c., in conseguenza del contributo causale riconducibile alla condotta del figlio rispetto al danno autoprodotto, ma non anche l’ulteriore riduzione ascrivibile alla loro responsabilità vicaria, ossia al presunto difetto di vigilanza o di educazione del figlio disciplinato dall’art. 2048 c.c.
I ricorrenti contestano questa decisione quanto al danno iure proprio da perdita del rapporto parentale riconosciuto ai genitori della vittima primaria, sostenendo che, per tale tipo di danno, la relativa colpa in vigilando o in educando non potrebbe non spiegare una sua propria efficacia causale nella (ulteriore) riduzione del risarcimento loro dovuto, pena una non giustificabile disparità di trattamento tra i genitori del minorenne che ha ceduto la droga (responsabili ex art. 2048), e quelli del minore acquirente, la cui condotta era pur stata ritenuta (con)causalmente efficiente, e che invece non avrebbero patito alcuna conseguenza, ai sensi della norma citata, per una condotta perfettamente sovrapponibile, quoad effecta, a quella degli altri genitori.
La Corte di Cassazione (sentenza del 6 ottobre n. 26798) rigetta il motivo, benché suggestivamente argomentato, non fondato. Ed invero rileva che: “ai fini della corretta soluzione del caso sottoposto all’esame di questa Corte, è necessaria una prima premessa: mentre il codice civile, all’art. 2046, si limita a qualificare come “fatto dannoso” e non come “fatto illecito” quello posto in essere dall’incapace (differenza lessicale ritenuta da una parte della dottrina indicativa di una precisa scelta del legislatore, intesa ad escludere l’illiceità del fatto, prima ancora che la responsabilità del suo autore, in linea, peraltro, con parte della dottrina penalistica che, pur a fronte del dato testuale dell’art. 85 c.p., tende a ritenere l’imputabilità presupposto del reato ovvero elemento della colpevolezza), nel diverso caso dei genitori destinatari dell’azione risarcitoria – ovvero chiamati a rispondere per culpa in vigilando o in educando in concorso con il figlio minorenne al fine di una ulteriore diminuzione del risarcimento loro dovuto iure proprio (oltre a quella già predicabile per il concorso del minore ex art. 1227 c.c.) è necessario che l’atto di quest’ultimo possa essere qualificato come atto illecito. Ne consegue che la loro responsabilità deve essere esclusa anche quando il fatto, pur dannoso, non possa essere legittimamente collocato all’interno di tale categoria. Va ulteriormente rammentato come la stessa Corte costituzionale si sia pronunciata, sin dal 1985, a favore del rilievo causale della condotta del danneggiato incapace (osservando come l’interpretazione corrente dell’art. 1227 cod. civ. non contrasti col principio di eguaglianza, in quanto l’equiparazione dell’incapace alla persona capace appare giustificata dal rilievo che il comportamento del creditore, sia egli capace o no, si pone egualmente come un evento di cui il debitore, che non l’ha cagionato, ragionevolmente non deve rispondere), censurando poi (e la precisazione appare fondamentale) l’inesattezza del richiamo, come tertium comparationis, al combinato disposto degli artt. 2046 e 2047 del codice “concernenti l’autore dell’illecito, mentre nel caso di cui all’art. 1227 si discute della condotta della persona offesa” (così, Corte cost. 23 gennaio 1985, n. 14, sulla cui scia Cass. 19 febbraio 2020, n. 4178; Cass. 13 febbraio 2020, n. 3557; Cass. 15 novembre 2016, n. 23214; Cass. 2 marzo 2012, n. 3242)“.
La Corte di Appello, pertanto, ha fatto corretta applicazione del principio, più volte affermato dalla Suprema Corte, a mente del quale: “se il minore ha concorso a cagionare il danno a se stesso, il risarcimento dovuto ai suoi genitori si riduce in funzione del suo contributo causale alla verificazione dell’evento, senza bisogno di indagare quale sia stato il loro ruolo nella vicenda, volta che la sola, possibile riduzione risarcitoria è l’effetto del concorso di colpa del minore, mentre non si può ammettere una riduzione ulteriore dovuta alla colpa presunta di omessa vigilanza ed educazione del figlio. (Cass. 2704/ 2005; Cass. 22514/ 2014; Cass. 23426/ 2014 ed altre, più recenti pronunce su cui amplius, infra)“.
Il ricorrente invocava invece l’applicazione di un diverso principio, affermato, a suo dire, oltre che dalle risalenti sentenze 2549/1986, 5619/1994, 4633/1997, dalla pronuncia di cui a Cass. 11241/2003 (Pres. Carbone, est. Preden), a mente della quale “qualora il genitore del minore danneggiato agisca in proprio per ottenere il risarcimento dei danni eventualmente derivatigli dall’illecito commesso nei confronti del figlio, è opponibile il suo concorso di colpa (per omessa vigilanza del minore stesso), essendo in tale ipotesi la relativa eccezione diretta a limitare la misura del risarcimento del danno in favore di esso genitore; tale questione non può essere, invece, utilmente proposta allorché il genitore agisca quale rappresentante del minore danneggiato“.
Il Collegio afferma che: “dalla lettura della sentenza – e dalla attenta analisi della fattispecie concreta – emerge che il principio, autorevolmente affermato, e del tutto condivisibile, aveva ad oggetto un caso in cui “i giudici di appello, nel ricostruire la dinamica dell’incidente, avevano ritenuto che la condotta dell’alunno M. (giuridicamente imputabile ai genitori a titolo di culpa in educando) aveva concorso nella produzione dell’evento dannoso finale, per avere il predetto dato inizio al lancio di sassi, in risposta al quale l’alunno R. aveva a sua volta lanciato il sasso che avrebbe poi colpito l’alunno M”. Pertanto, l’estensione della responsabilità del minore poi risultato vittima delle lesioni anche ai suoi genitori, in concorso con quella della responsabilità dell’altro alunno (e dei suoi genitori) si fondava sul concorso nell’illecito commesso da entrambi gli alunni: si legge, difatti, in motivazione, che la valutazione del giudice di appello appariva del tutto corretta proprio perché “il secondo lancio di sassi, andato a segno, non si poneva certamente al di fuori delle normali e prevedibili linee di sviluppo causale del primo, pur se non aveva raggiunto il bersaglio, dovendo essere considerata la reazione, con eguali modalità, del soggetto destinatario del lancio di un sasso conseguenza normale dell’antecedente”. Delle altre pronunce citate, la 4633/1997 risulta inconferente (avendo ad oggetto la diversa fattispecie di cui all’art. 2647 c.c.: soltanto se la condotta dell’incapace di intendere o volere, stante l’applicabilità anche in tal caso dell’art. 1227, comma 1, c.c., ha contribuito a cagionare il danno dal medesimo subito, il responsabile che deve risarcirlo può eccepire il concorso di colpa del soggetto obbligato alla sorveglianza di quegli, ex art. 2047 c.c.), mentre i principi delle ormai risalenti pronunce del 1986 e del 1994 sono stati definitivamente superati dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, di tal che non appare corretto discorrere di un vero e proprio contrasto, se non su di un piano significativamente diacronico.
La più recente giurisprudenza di legittimità, difatti, ha escluso la configurabilità di un (ulteriore) concorso dei genitori del minore danneggiato all’esito dell’accertamento dell’originario concorso dello stesso, affermando, fin dalla sentenza 2704/2005, il principio secondo il quale la norma di cui all’art. 1227 c.c. (riferibile anche alla materia del danno extracontrattuale per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 2056 del codice) della riduzione proporzionale del danno in ragione dell’entità percentuale dell’efficienza causale del soggetto danneggiato si applica anche quando questi sia incapace di intendere o di volere per minore età o per altra causa, e tale riduzione deve essere operata non solo nei confronti del danneggiato, che reclama il risarcimento del pregiudizio direttamente patito al cui verificarsi ha contribuito la sua condotta, ma anche nei confronti dei congiunti che, in relazione agli effetti riflessi che l’evento di danno subito proietta su di essi, agiscono per ottenere il risarcimento dei danni iure proprio, restando, peraltro, esclusa – ove essi avessero avuto sull’incapace un potere di vigilanza – la possibilità di far luogo ad una ulteriore riduzione del danno risarcibile sulla base di un loro concorso nella sua causazione per culpa in educando o in vigilando. (Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva proporzionalmente ridotto l’ammontare della somma da liquidare in favore dei genitori per il risarcimento del danno subito a causa della morte della figlia minore che, attraversando imprudentemente la strada, era stata investita da un’auto, tenendo conto del concorso di colpa della stessa minore, nell’accezione sopra indicata, nel provocare il danno).
In altri termini, una volta stabilito che il concorso della condotta concorrente della vittima minorenne che non commetta un autonomo illecito deve essere preso in considerazione, ex art. 1227 I comma c.c., ai fini della proporzionale riduzione del risarcimento dei danni reclamati iure proprio dai genitori, l’ulteriore accertamento avente ad oggetto la sussistenza della loro colpa concorrente ex art. 2048 c.c. al fine di far derivare la (ulteriore) riduzione del danno risarcibile diviene irrilevante, dato che l’eventuale culpa in educando ovvero in vigilando verrebbe a coprire, per altro verso, quel medesimo ambito di irrisarcibilità già derivante dall’applicazione dell’art. 1227 cod. civ. (in termini, sia pur con varietà argomentativa, Cass. 2483/2018; Cass. 3557/2020). Non colgono nel segno, pertanto, le pur suggestive argomentazioni di parte ricorrente, secondo cui, se l’applicazione dell’articolo 1227 c.c. impedisce una pronuncia di condanna che tenga conto anche del difetto di vigilanza ed educazione dei genitori della vittima, ciò non vuol dire che di tale difetto non possa tenersi conto ad altro titolo, ossia in base all’articolo 2048 c.c. – così anelandosi ad una pronuncia predicativa del principio secondo cui il risarcimento iure proprio dei genitori del minore deceduto andrebbe due volte ridotto, in base a due diversi titoli, ex art. 1227 per essere il danno stato causato anche dalla vittima, ed ex art. 2048 in quanto imputabile alla loro responsabilità vicaria“.
A fronte di ciò la Corte di Cassazione ritiene la decisione impugnata sia fondata su: “di una lettura dell’art. 2048 c.c. che istituisce i genitori responsabili del fatto (del minore) solo qualora esso sia illecito. Nella specie, il danno che il minore aveva causato a sé stesso è di colore giuridicamente “neutro” rispetto alla sua condotta, volta che, assumendo droga, egli non compie alcun atto illecito né verso se stesso né verso i genitori – con la conseguenza che questi ultimi non possono essere chiamati a subire quel danno oltre il limite del concorso del figlio deceduto ex art. 1227 c.c., posto che essi rispondono della condotta del minore solo quando essa sia autonomamente illecita, vuoi che il danno conseguente riguardi terzi, vuoi che riguardi lo stesso danneggiato. Né varrebbe obbiettare che i genitori rispondono del fatto del minore solo ed esclusivamente se tale fatto sia illecito evocando la figura degli atti leciti dannosi (ossia quei casi in cui il compimento dell’atto, che ha prodotto danno, è consentito dall’ordinamento), poiché l’esistenza di una eventuale causa di giustificazione ex lege (come nell’ipotesi di accesso al fondo altrui per recuperare una cosa smarrita: art. 843 c.c.), da un canto, genera un obbligo non risarcitorio ma indennitario, dall’altro, nella sua evidente eccezionalità, non fa che confermare la regola della inscindibilità tra illiceità della condotta del minore e responsabilità genitoriale sancita dall’art. 2048 c.c. Del tutto fuori fuoco, infine, deve ritenersi tanto la tesi secondo cui anche il consumo personale di sostanze stupefacenti, in quanto oggetto di sanzione amministrativa (art. 75 del TU stupefacenti), sarebbe “disapprovato” dall’ordinamento (e pertanto integrante una fattispecie di illecito), quanto quella che vorrebbe qualificare la condotta di chi acquista e consuma lo stupefacente – sia pur ai soli fini della fattispecie civilistica del danno che ne deriva – in termini di “concorso” con quella, illecita, dello spacciatore nella determinazione dell’evento. Quanto alla prima, non sembra minimamente discutibile la necessità che il “fatto illecito” ascritto alla vittima debba orbitare attorno alla sua necessaria dimensione civilistica (o penalistica), e non amministrativa; quanto alla seconda, la sola ipotesi di una sorta di “concorso civilistico” nell’illecito (penale) rappresentato dall’attività di spaccio da parte del venditore dello stupefacente non ha, all’evidenza, alcun fondamento giuridico, alla luce della valutazione di non illiceità della condotta dell’acquirente compiuta dallo stesso ordinamento a tutt’oggi (ancora) vigente. I genitori del minore che abbia acquistato e poi assunto volontariamente una quantitativo mortale di sostanza stupefacente, e che sia rimasto vittima di tale comportamento, subiranno, pertanto, una riduzione del risarcimento loro dovuto per il danno patito iure proprio, ai sensi dell’articolo 1227 c.c., volta che quel danno è stato (in parte) materialmente causato dalla condotta del figlio deceduto, ma non potranno subire una ulteriore riduzione di quel risarcimento, ex art. 2048 c.c., se (come nella specie) la condotta del minore non abbia rivestito il carattere della illiceità“.
I PRINCIPI DI DIRITTO
A fronte di ciò la Corte di Cassazione enuncia i seguenti principi di diritto :
“1) In tema di responsabilità cd. “vicaria” dei genitori del minore, ai fini della (ulteriore) riduzione del risarcimento del danno subito iure proprio (nella specie, morte del figlio per assunzione di sostanza stupefacente) e già ridotto in applicazione del comma primo, prima parte, dell’art. 1227 c.c. per essere stata ritenuta la condotta del danneggiato concausa dell’evento di danno, deve valutarsi esclusivamente se quest’ultimo abbia tenuto o meno un comportamento illecito, ossia oggettivamente in contrasto con una regola di condotta stabilita da norme positive, a prescindere dalla sua età e dal suo stato di incapacità.
2) La norma di cui all’art. 1227, comma 1, prima parte c.c. ha riguardo all’accertamento del nesso di causalità materiale, onde l’eventuale contributo causale della vittima all’evento dannoso è di tipo oggettivo e prescinde dall’imputabilità della condotta colposa sul piano soggettivo. L’eventuale condotta della vittima incapace, deve – pertanto – essere valutata alla stregua dello standard ordinario di comportamento diligente dell’uomo medio, senza tener conto della sua incapacità di intendere e di volere. Una siffatta valutazione oggettiva della condotta della vittima incapace, qualora non integri gli estremi di un autonomo fatto illecito, assorbe ogni rilievo circa la condotta del soggetto tenuto alla sua sorveglianza sotto il profilo di una sua eventuale culpa in vigilando e/o in educando, in quanto quest’ultima resta di fatto assorbita e superata dal fatto che la valutazione della condotta della vittima incapace viene effettuata secondo un criterio che non tiene conto della sua incapacità, operando invece su di un piano esclusivamente oggettivo e materiale.
3) Il principio di cui all’art. 1227 c.c. (riferibile anche alla materia del danno extracontrattuale per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 2056 c.c.) della riduzione proporzionale del danno in ragione dell’efficienza con-causale della condotta del soggetto danneggiato si applica anche quando questi sia incapace di intendere o di volere per minore età o per altra causa, e tale riduzione deve essere operata non solo nei confronti del danneggiato, che reclama il risarcimento del pregiudizio direttamente patito al cui verificarsi ha contribuito la sua condotta, ma anche nei confronti dei congiunti che, in relazione agli effetti riflessi che l’evento di danno subito proietta su di essi, agiscono per ottenere il risarcimento dei danni iure proprio, restando peraltro esclusa – nell’ipotesi in cui la condotta concorrente della vittima non abbia il carattere dell’illecito, giusta il principio di cui all’art. 2048 c.c. – la possibilità di far luogo ad una ulteriore riduzione del danno risarcibile sulla base di un loro ipotetico concorso nella sua causazione per culpa in educando o in vigilando.




