La Corte di Cassazione, con la sentenza del 29 ottobre 2024 n. 27938, è chiamata a pronunciarsi sulla fondatezza della richiesta risarcitoria formulata da un architetto nei confronti di un proprio cliente per gli asseriti danni da perdita di chances ed all’immagine conseguenti al recesso subito.
La Corte preliminarmente rileva che ai sensi dell’art. 2237 c.c. (recesso), relativo ai professionisti, si prevede che “il cliente può recedere dal contratto, rimborsando al prestatore d’opera le spese sostenute e pagando il compenso per l’opera svolta“. Non v’è, dunque, alcun riferimento al diritto del prestatore d’opera, che abbia subito il recesso ad nutum da parte del cliente, di pretendere anche il “mancato guadagno”. Diversamente l’art. 2227 c.c., dedicato alle modalità di esercizio del recesso unilaterale del contratto, nell’ambito del contratto d’opera “relativo al “lavoro autonomo” “manuale”, stabilisce che “il committente può recedere dal contratto, ancorché sia iniziata l’esecuzione dell’opera, tenendo indenne il prestatore d’opera delle spese, del lavoro eseguito e del mancato guadagno“.
È pacifico in dottrina che la peculiare modalità di declinazione del recesso ex art. 2237 c.c., consentito al cliente ad nutum nei confronti del professionista intellettuale, si collega proprio alla natura prettamente fiduciaria di tale rapporto (Cass., 10/1/1962, n. 10), la quale postula una costante adesione del committente alle modalità della sua attuazione. Pertanto, il cliente che manifesti la volontà di recedere dal contratto d’opera professionale ha l’obbligo di rimborsare al prestatore d’opera le spese da lui sostenute e di corrispondere un compenso per l’opera svolta, da determinarsi in base ai criteri di cui all’art. 2233 c.c., tenendo conto non soltanto dell’attività preparatoria, ma anche degli esborsi a cui il professionista abbia dovuto far fronte con riguardo alla programmazione dell’intera opera affidatagli. Tuttavia, tale indennizzo – in base alla secca disposizione di legge – non si estende al mancato guadagno.
La Corte di Cassazione si pone dunque la questione circa la possibilità (o meno) delle parti di derogare convenzionalmente a quanto previsto dall’art. 2237 c.c., sia in ordine al recesso ad nutum, sia con riferimento alla eventuale previsione di ristorare il professionista intellettuale del mancato guadagno.
In tal senso, richiamando il proprio precedente orientamento, la Corte afferma che: “il contratto di prestazione d’opera intellettuale, ai sensi dell’art. 2230 c.c., è disciplinato dalle norme contenute nel capo secondo del titolo terzo del libro quinto del codice civile, nonché, se compatibili, da quelle contenute nel capo precedente riguardanti il contratto d’opera in generale. Posto che la disciplina del recesso unilaterale dal contratto prevista dall’art. 2237 c.c. dispone che, in caso di recesso del cliente, al prestatore d’opera spetta il rimborso delle spese sostenute ed il corrispettivo per l’opera eseguita, mentre quella dettata dall’art. 2227 c.c. per il contratto d’opera in generale comprende anche il mancato guadagno, vi è incompatibilità tra le due disposizioni con conseguente prevalenza della norma speciale, in ragione delle peculiarità che contraddistinguono la prestazione d’opera intellettuale (Cass., sez. 9/1/2020, n. 185). Tale posizione viene giustificata sul rilievo che: “l’esercizio da parte del cliente del potere di recesso ad nutum non può essere fonte di responsabilità, in base al principio qui iure suo utitur neminem laedit, né può legittimare la proposizione da parte del professionista dell’azione di risoluzione del contratto per inadempimento“.
Nonostante il carattere fortemente fiduciario del rapporto tra cliente e professionista nell’ambito delle prestazioni intellettuali, tuttavia in tempi più recenti, la Corte di Cassazione ha ritenuto comunque sussistere la possibilità di derogare alla disciplina della recedibilità ad nutum, con clausole che operano, talora a vantaggio di una parte, talora a vantaggio dell’altra. Se così è – si legge nella sentenza annotata- allora: “deve reputarsi consentito, con specifico riferimento alla prestazione resa dall’architetto, un accordo negoziale con cui si preveda che, in caso di recesso ad nutum da parte del cliente, nei confronti del professionista intellettuale, a quest’ultimo spetti anche il “mancato guadagno”, come nell’ipotesi di cui all’art. 2227 c.c., eventualmente richiamato – come nella specie – in apposita convenzione tra le parti. Trattasi – è vero – di diversa disciplina, che il legislatore ha voluto disegnare proprio per mettere in evidenza le peculiari distinzioni tra il contratto d’opera manuale ed il contratto reso nell’ambito delle professioni intellettuali. Ciò, probabilmente, per garantire in modo significativo il peculiare rapporto fiduciario che deve necessariamente intercorrere fra le parti nel contratto d’opera professionale, per tutto il corso di svolgimento dello stesso. Tuttavia, non sussistono i requisiti necessari per ritenere che l’art. 2237 c.c. – per lo meno con riferimento al rapporto professionale tra architetto e cliente – costituisca una norma imperativa, e quindi inderogabile dalle parti“.
La Corte chiarisce che: “la possibilità per le parti di derogare al disposto dell’art. 2237 c.c., con specifico riferimento all’architetto (o all’ingegnere), e quindi al “professionista tecnico“, non solo quanto ai limiti al potere di recesso ad nutum, ma anche in ordine al riconoscimento, tramite accordo negoziale, del mancato guadagno, può individuarsi anche negli artt. 10 e 18 della legge 2/3/1949, n. 143, tuttora vigente. Si premette che tale normativa speciale trova applicazione solo in mancanza di un diverso accordo negoziale, come è accaduto nel caso che è oggetto di esame, in cui le parti hanno concordato di applicare al contratto di prestazione intellettuale ex art. 2237 c.c. quanto previsto per il contratto di prestazione manuale ex art. 2227 c.c., soprattutto per il riconoscimento anche del mancato guadagno“.
Se quindi ammette la possibilità di deroga convenzionale, per ingegneri ed architetti, i quali sono quindi legittimati a richiedere il risarcimento del lucro cessante per il recesso ingiustificato, la Corte precisa che tale strada risulta non percorribile nell’ipotesi di avvocati e medici in presenza di interessi pubblicistici di elevato rilievo, anche costituzionale. Ed invero: “nel caso di attività dell’avvocato o del medico è chiaro che vengono in rilievo interessi pubblici costituzionalmente protetti, come il diritto alla difesa delle proprie ragioni ex art. 24 Cost. ed il diritto alla salute ex art. 32 Cost., con la possibilità concreta che si ponga la questione della natura imperativa dell’art. 2237 c.c., con riferimento a tali specifiche fattispecie. Insomma, la disciplina speciale dell’art. 2237 c.c. trova il suo fondamento nella natura fiduciaria del rapporto, che determina la prevalenza dell’interesse (privato) del cliente, rispetto a quello del professionista. L’interesse del professionista a portare a compimento l’opera intellettuale, anche per i riflessi di natura morale che ne derivano, non trova nella vigente normativa autonoma tutela, tanto che la dichiarazione negoziale di recesso viene qualificata come negozio astratto, seppure esistano norme in senso contrario, che però, per la loro specifica portata, non sembra possano incidere sul principio generale della disposizione esaminata. Per tale ragione l’art. 2237 c.c. attribuisce al cliente l’incondizionato diritto, potestativo, di recedere dal rapporto, ponendo a carico dello stesso cliente il solo vincolo di corrispondere il compenso per l’opera prestata dal professionista“.