La Corte di Cassazione, con la sentenza del 5 febbraio 2025 n. 2861 è chiamata a verificare la correttezza della quantificazione per la perdita di chance per sopravvivenza operata dalla Corte di Appello. Rileva che la stessa resiste a tutte le censure di parte ricorrente.
Ed invero il giudice territoriale aveva ritenuto “più conforme ai parametri dettati dalla giurisprudenza della Cassazione, la modalità di computo che parte dalla determinazione della somma che sarebbe spettata alla vittima nel caso di invalidità permanente al 100% di persona di 29 anni (pari complessivamente ad Euro 1.063.152,00 in applicazione delle vigenti tabelle aggiornate) suddividendola per il numero di anni che avrebbe potuto ancora vivere secondo i parametri medi Istat (ovvero ulteriori 50 anni), ottenendo così il valore di Euro 21.263,04, da moltiplicare per il numero di anni corrispondenti all’aspettativa di vita complessivamente “sperata” (ovvero 5 anni) pervenendo così all’importo di Euro 106.315,20″, dovendosi, poi, da “tale somma . essere quindi decurtato l’importo corrispondente ai 15 mesi vissuti dopo l’intervento del 12.12.2013 (pari a complessive Euro 26.578,80)” e, infine, applicata, “all’importo così ottenuto, pari ad Euro 79.736,40, … l’aliquota percentuale corrispondente alla possibilità di verificazione della chance perduta”, ossia – “prudenzialmente, in applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’onere della parte di dimostrare l’entità delle chances perdute” – quella minima del 40%) “il valore della chance di sopravvivenza perduta (doveva) nella fattispecie essere quantificata in complessive Euro 31.894,56 omnia”, con “gli interessi legali ex art. 1284 c.c. dalla sentenza all’effettivo soddisfo“.
La Corte di Cassazione precisa che “è necessario un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Ne consegue che, allorché non siano indicate le ragioni dell’operato apprezzamento e non siano richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, la sentenza incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma sesto, Cost.), sia nel vizio di violazione dell’art. 1226 c.c. (Cass. n. 22272/2018; Cass. n. 18795/2021). Nella specie, il giudice di appello non solo ha dato puntuale risalto ai vari parametri di liquidazione utilizzati, al peso attribuito a ciascuno di essi e al loro combinato operare (cfr. la sintesi al par. 9.1., che precede e alla quale integralmente si rinvia), ma ha, altresì, optato, in assenza di tabelle preordinate di riferimento, per una stima che – in conformità a quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. par. 7.1.1., che precede) – non è stata parametrata né ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno biologico temporaneo, avendo come riferimento finale, in coerenza con la configurazione del danno da risarcirsi e degli elementi utili allo scopo (diversamente da quanto incongruamente opinato dal primo giudice in ragione del riferimento al parametro statistico della vita media per ulteriori 50 anni, consentaneo, invero, ad un danno da morte anticipata e non da perdita chance), il moltiplicatore rappresentato dal “numero di anni corrispondenti all’aspettativa di vita complessivamente “sperata” (ovvero 5 anni)“.
Eppure tale procedimento si presta almeno a due considerazioni critiche.
La prima riguarda il riferimento ad un elemento (il danno non patrimoniale per la lesione alla salute) ontologicamente differente da quello che è oggetto di calcolo: ossia il diritto alla vita.
La secondo, a carattere più sistematico, pone un reale interrogativo: per quale motivo il danno da perdita di chances già entrato nel patrimonio del danneggiato ancora in vita può essere risarcito allo stesso mentre non può essere nello stesso modo reclamato dai congiunti in via iure successionis (in tutti i casi in cui si dibatte della morte)? Se l’acquisizione del diritto è già avvenuto, la morte non può determinare l’azzeramento del suo contenuto ma semplicemente la trasmissione agli eredi. E’ evidente che il tabù del danno tanatologico (la cui irrisarcibilità è un vero è proprio dogma) mette alla prova tale metodo di calcolo.