La Corte di Cassazione (sentenza del 23 giugno 2025 n. 167881) fornisce una riepilo sistematico sistematico della tematica relativa alla responsabilità (e al conseguente obbligo risarcitorio) dei danni causati da animali randagi. In primo luogo esclude in tale contesto l’applicazione dell’art. 2052 c.c., rilevando che: “l’art. 2052 c.c. è stato ritenuto da questa Corte applicabile ai danni causati dalla fauna selvatica in base al presupposto che questa sia un bene da proteggere in virtù di precisa scelta legislativa e di assunzione – con essa – delle connesse funzioni, sicché l’ente che ne ha la protezione, ne ha anche la responsabilità. Rispetto ai cani randagi, invece, i compiti della pubblica amministrazione sono essenzialmente di prevenzione e non di protezione; di tutela della popolazione dagli animali e non di tutela degli animali dai rischi dell’antropizzazione: i cani randagi non possono, quindi e allo stato attuale della legislazione, definirsi una specie protetta. La diversità di ratio della normativa impedisce dunque l’applicabilità sia diretta, sia analogica, dell’art. 2052 c.c. ai danni causati da cani randagi“.
Esclusa l’applicabilità della disciplina dell’art. 2052 c.c., la responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi grava pertanto, secondo il collegio: “esclusivamente sull’ente cui le singole leggi regionali, attuative della legge quadro nazionale n. 281 del 1991, attribuiscono il compito di cattura e custodia degli stessi (Cass. 15244/24; Cass. 3737/23; Cass. 32884/21). Nel caso di specie deve perciò farsi riferimento alla L. reg. Puglia n. 12 del 1995, i cui artt. 2, 6 e 8 stabiliscono che le amministrazioni comunali sono prive di legittimazione passiva in merito alla pretesa risarcitoria per i danni causati dai cani randagi. In base alla suddetta legge, infatti, i Comuni devono limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera “accoglienza” dei cani randagi recuperati, mentre al relativo “ricovero”, che presuppone l’attività di recupero e cattura, sono tenuti i servizi veterinari delle ASL (Cass., Sez. 3, ord. 2/1/2024, n. 10; Sez. 3, sent. 28/06/2018, n. 17060; Sez. 3, ord. 26/05/2020, n. 9671)“.
Precisa inoltre che per la Corte: “è pacificola pubblica amministrazione può essere chiamata a rispondere dei danni causati da cani randagi solo a titolo aquiliano, ex art. 2043 c.c. L’art. 2043 c.c. impone al danneggiato di provare una condotta commissiva od omissiva del responsabile; la natura colposa di essa ed il nesso causale tra questa ed il danno. È una condotta colposa della pubblica amministrazione non adempiere i doveri ad essa imposti dalla legge. È dunque onere del danneggiato dimostrare che la pubblica amministrazione contro cui è rivolta la domanda di risarcimento non abbia adempiuto gli obblighi ad essa imposti dalla legge allo scopo di prevenire il randagismo ed i danni che tale fenomeno può arrecare alle persone. Tale prova può fornirsi, ad es., dimostrando che al servizio di prevenzione del randagismo la ASL competente non aveva destinato alcuna risorsa o risorse insufficienti; che il relativo ufficio esisteva solo sulla carta; che il servizio veniva svolto in modo saltuario o non veniva svolto affatto. Queste circostanze possono essere provate con ogni mezzo: documenti, testimoni, presunzioni, ispezioni, confessione e giuramento.
La prova che la pubblica amministrazione non abbia apprestato un efficace servizio di prevenzione del randagismo (e dunque la prova della condotta omissiva) non può invece trarsi dal mero fatto che un cane randagio abbia causato un danno. In primo luogo, perché l’obbligazione della pubblica amministrazione di prevenire il randagismo è una obbligazione di mezzi, non di risultato: dunque dal fatto noto che il risultato non sia stato raggiunto non può risalirsi al fatto ignorato che l’insuccesso sia dovuto a colpa della stessa pubblica amministrazione. In secondo luogo, perché l’essenza della colpa consiste non solo nella prevedibilità, ma anche nella prevenibilità. E nemmeno il più capillare ed efficiente servizio di cattura potrebbe impedire del tutto che un animale randagio possa comunque trovarsi in un determinato momento sul territorio comunale (Cass. Sez. 3, 28/06/2018, n. 17060). In terzo luogo, non rileva ai fini della dimostrazione della condotta colposa la teoria c.d. della concretizzazione del rischio, enfatizzata dalla ricorrente e di cui si dirà meglio tra breve. La teoria della concretizzazione del rischio è una teoria della spiegazione causale. Ad essa si ricorre quando si tratti di stabilire se una condotta sia stata o non sia stata la causa d’un danno. Quella teoria è invece inutile quando si tratti di accertare un fatto, quale è lo stabilire se la pubblica amministrazione abbia o non abbia adempiuto un obbligo di legge. La spiegazione causale infatti consiste in un giudizio e presuppone un criterio di giudizio; l’accertamento d’una condotta consiste nella ricostruzione storica d’un fatto e ne presuppone la prova. È dunque scorretto logicamente, prima che giuridicamente, pretendere di accertare la sussistenza d’una condotta colposa in base ad un criterio di spiegazione della causalità. Sarebbe, infatti, impensabile sostenere che una condotta indimostrata sia stata la causa d’un danno. Se manca la prova della condotta colposa, commissiva od omissiva che sia, nessuna spiegazione causale è possibile anche solo imbastire.
Una volta dimostrata dal danneggiato l’inerzia colposa della pubblica amministrazione, resta da dimostrare che quell’omissione sia stata la causa materiale del danno: ed è qui che soccorre la teoria della concretizzazione del rischio, secondo cui il nesso di causalità può ritenersi dimostrato quando: a) esista una norma che imponga una certa condotta al fine di prevenire un determinato rischio; b) sia accertata la violazione dell’obbligo di condotta; c) si sia avverato il rischio che la norma impositiva dell’obbligo mirava a prevenire. Quando ricorrano queste tre circostanze, per pacifica giurisprudenza di questa Corte è consentito ritenere che l’attore abbia validamente dimostrato il nesso di causalità tra l’omissione e il danno“.
La Corte rileva che nonostante tali principi siano stati già ripetutamente affermati: “il non modesto numero di ricorsi su fattispecie analoghe; la sovrabbondante motivazione di talune decisioni; la pericolosa tendenza a richiamare i precedenti facendo riferimento solo alla massima e trascurando il caso concreto, ha ingenerato la mera apparenza – ché di questo solo si tratta – d’un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, in realtà inesistente. Il contenzioso scaturente dai danni causati da cani randagi è fenomeno relativamente recente nella giurisprudenza di legittimità. La prima decisione di legittimità in tal senso risale infatti a Sez. 3, Ordinanza n. 13898 del 28.6.2005, quando negli ottant’anni precedenti non è dato riscontrare precedenti massimati. Negli ultimi vent’anni, invece, il fenomeno ha assunto dimensioni ragguardevoli: dal 2005 ad oggi questa Corte ha deciso 113 ricorsi aventi ad oggetto danni causati da cani randagi; il fenomeno inoltre appare singolarmente concentrato in quattro Regioni (in ordine di frequenza: Calabria, Puglia, Campania e Sicilia). Nell’affrontare tale contenzioso questa Corte ha chiarito innanzitutto che: a) per stabilire quale sia l’ente tenuto a prevenire il randagismo occorre fare riferimento alla legislazione regionale; b) la responsabilità della pubblica amministrazione è disciplinata dall’art. 2043 c.c. (ex multis, Cass. 5339/24; Cass. n. 17060 del 2018 e 9671 del 2020, Cass. n. 19404 del 2019 e Cass. n. 32884 del 2021). È altresì pacifico il principio per cui chi domanda il risarcimento del danno causato da un cane randagio deve dimostrare “il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall’ente (…), sì da dedurne la eventuale responsabilità sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest’ultima individuata secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l’alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo“.
Infatti, se bastasse, per invocare la responsabilità della pubblica amministrazione, la sola individuazione dell’ente preposto alla cattura dei randagi ed alla custodia degli stessi in esito ad essa, la fattispecie cesserebbe di essere regolata dall’art. 2043 c.c. e finirebbe per essere del tutto disancorata dalla colpa, rendendo la responsabilità dell’ente una responsabilità sottoposta a principi analoghi se non addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva (Cass. 5339/24; 23633/19; 19404/19; 31957/18; 22546/18; 11591/18, ma v. in particolare la sentenza capostipite di tale orientamento, Cass. 18954/17, secondo cui “ai fini dell’affermazione della responsabilità (della pubblica amministrazione) occorre la precisa individuazione di un concreto comportamento colposo. Ciò implica che non è possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell’ente cui la normativa nazionale e regionale affida in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, in mancanza della puntuale allegazione e della prova, il cui onere spetta all’attore danneggiato in base alle regole Generali, della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e nella specie omessa”). Pretendere, come fa l’odierna ricorrente, che “la circostanza di fatto che il cane fosse libero dimostrerebbe di per sé che il predetto servizio di prevenzione del randagismo non era stato espletato in modo adeguato dal comune” significherebbe introdurre una responsabilità oggettiva (Cass. 36719/21), non giustificabile in base alla lettera ed allo spirito della legge. Una volta che il danneggiato abbia dimostrato in cosa sia consistita la condotta colposa della pubblica amministrazione, sorge il problema di valutarne l’efficienza causale rispetto al danno: ed è a questo punto che il danneggiato potrà invocare la teoria della concretizzazione del rischio di cui si è detto in precedenza. La distinzione è ben scolpita nella motivazione di Cass. 17060/18, in cui si distinguono i tre passaggi necessari per pervenire ad un giudizio di condanna della pubblica amministrazione per il danno causato da cani randagi: a) l’individuazione della norma che impone l’obbligo di provvedere; b) l’accertamento della condotta violativa di tale obbligo; c) la causalità tra omissione e danno.
Non contrasta con tali consolidati e risalenti princìpi il precedente di questa Corte enfatizzato dalla ricorrente (Cass. 9621/22, cui possono affiancarsi Cass. 32884/21 e Cass. 9671/20). Queste decisioni vanno, infatti, rettamente intese.L’affermazione, ivi contenuta, secondo cui “grava sulla ASL l’onere di provare di avere organizzato il servizio”, fu compiuta in quelle decisioni al solo fine di stabilire se l’attore avesse o no dimostrato l’esistenza del nesso di causa tra omissione e danno. Si legge infatti a p. 4, penultimo capoverso, della motivazione di Cass. 9671/20, che “in caso di concretizzazione del rischio che la norma violata tende a prevenire, il nesso di causalità che astringe a quest’ultimo i danni conseguenti, rimane presuntivamente provato”. Il breve passo estrapolato ed enfatizzato dalla ricorrente, pertanto, non va affatto inteso come questa vorrebbe: e cioè che, se taluno venga ferito da un cane randagio, la ASL è tenuta ipso facto a risarcirlo. Riguardata la motivazione nella sua interezza, il senso è ben diverso e, con maggior chiarezza, può così riassumersi: a) in tema di danni causati da cani randagi, è onere del danneggiato provare che la pubblica amministrazione a ciò preposta non abbia assolto l’obbligo di predisporre uomini e mezzi per la prevenzione del randagismo; b) è onere del danneggiato provare anche il nesso di causa, ma questa prova può essere fornita in via presuntiva, dimostrando l’avverarsi del rischio che la già dimostrata condotta omissiva avrebbe dovuto prevenire; c) la pubblica amministrazione può vincere la presunzione sub (b) dimostrando il caso fortuito.
Il conclusione la Corte enuncia il seguente principio di diritto: “la responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi è soggetta alle regole dell’art. 2043 c.c.; pertanto, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito. La colpa della pubblica amministrazione non può tuttavia essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, ma esige la dimostrazione della insufficiente organizzazione del servizio di prevenzione del randagismo. Solo una volta fornita questa prova, il nesso di causa tra condotta omissiva e danno potrà ammettersi anche ricorrendo al criterio c.d. della concretizzazione del rischio (il quale è criterio di spiegazione causale, e non di accertamento della colpa), in virtù del quale il fatto stesso dell’avverarsi del rischio che la norma violata mirava a prevenire è sufficiente a dimostrare che una condotta alternativa corretta avrebbe evitato il danno“